sabato 18 maggio 2013

Friday Boulevard: the best of the week



Anche questa settimana si sta concludendo e come ogni venerdì vi presentiamo una summa degli eventi più rilevanti in campo artistico.

A metà giugno chi andrà a Firenze per visitare la Galleria degli Uffizi troverà un allestimento ampliato. Salvo intoppi tecnici, infatti, per quel periodo dovrebbero aprire alle visite due nuove sale espositive: la numero 68, dedicata alla pittura a Roma nella prima metà del Cinquecento, e la numero 71, che accoglie dipinti ad Antonio Allegri, meglio noto come Correggio, dal suo paese di nascita. Le due sale sono situate al piano nobile nell’ala di ponente, quella che affaccia sul piazzale della Galleria.

Oltreoceano invece si respirano notizie negative per i Maya: infatti una piramide Maya realizzata nel Belize, in America centrale, circa 2.300 anni fa, è andata distrutta durante i lavori condotti da una ditta locale per il risanamento di alcune strade nella zona. A sostenerlo sono architetti e studiosi di archeologia che hanno denunciato l'accaduto.


Per quanto riguarda mostre e restauri cito la raccolta fondi da molte imprese sia italiane sia americane. una campagna di «crowdfunding» iniziata ieri e che terminerà il 30 giugno. Si punta a restituire al mondo il Busto di Francesco I d'Este del Bernini, simbolo della Galleria Estense a Modena, chiusa per i danni del terremoto del 2012.                                                                       

Buon weekend artistico da tutto lo staff!


mercoledì 24 aprile 2013

Reportage: un viaggio a Roma fra gli archivi dell’architettura

Aprile dolce dormire, si è soliti dire: visto e considerato, però, il poco tempo che ho avuto ultimamente potrei tranquillamente smentire questo proverbio; prima sono stato alle prese con un esame e subito dopo sono partito per Roma con l’università, ed ho avuto davvero poco tempo per dormire! Però, da bravo aspirante critico d’arte, ho colto l’occasione al volo per conciliare una breve permanenza nella “caput mundi” con la mia passione e per approfondire un tema interessanti come quello degli archivi di architettura.
Chi, come me, frequenta una facoltà di ambito architettonico è abituato, già dal primo anno, a confrontarsi con i più grandi maestri dell’architettura moderna da Nervi a Rossi, da Renzo Piano a Alvar Aalto e rimane ogni volta meravigliato di come nascano i loro progetti e di come queste sculture urbane si inseriscano nella città tanto da diventare un simbolo distintivo. Ma accanto allo studio dei maestri c’è un altro elemento con cui gli studenti devono fare i conti, un nemico subdolo e nascosto, ma capace di alcune tremende pugnalate alle spalle e responsabile di notti insonni: AutoCAD (in ogni sua incarnazione). Al di là della facile ironia, la visita agli archivi (prima a quello del settore architettura del museo Maxxi e successivamente all’archivio centrale di stato) mi ha aperto gli occhi su un tema che, ultimamente, viene molto sottovalutato: il disegno. I maestri che studiamo non disponevano per loro sfortuna (o per loro fortuna) del computer, quindi ,oltre a non perdere tempo su facebook, il loro genio creativo era frutto del disegno a mano, tutti i loro progetti dal più semplice fino al più titanico era il risultato di uno schizzo su carta che piano piano prendeva forma, come gli antichi maestri della pittura preparavano con pazienza gli studi per i loro affreschi.


Architetti come Carlo Scarpa, Pierluigi Nervi o Aldo Rossi disegnavano le loro intuizioni architettoniche, e proprio da quello schizzo febbrile e pulsante nasceva l’architettura, come un qualcosa di vivo che cresceva fino a trasformarsi in un progetto vero. La matita e gli strumenti del disegno erano quasi un prolungamento naturale della mano, e nonostante gli infiniti studi e le svariate ipotesi che venivano fatte prima di arrivare al tanto agognato “progetto definitivo” il disegno a mano rendeva l’architettura più simile ad una vera opera d’arte. Spesso i professori delle facoltà di architettura sono soliti ammonire i loro studenti, ricordando loro che la triade vitruviana non comprende la solo parvenza estetica ma anche la “firmitas” e la “utilitas”, tanto che spesso viene detto che l’architettura non è arte: eppure i disegni conservati negli archivi visitati sembravano dire proprio il contrario, l’architetto era quasi un artigiano che faceva nascere un progetto dalla sua sensibilità e la carta era il supporto dove le idee prendevano vita, la vera magia dell’architettura era vedere come dalla carta e dal disegno sorgevano poi progetti magnifici. Oggi con il computer da un lato è tutto più semplice, ma dall’altro si è persa proprio questa spontaneità, questo spirito creativo da artigiano: di sicuro avere uno strumento capace di aiutare il progettista nel creare forme che sarebbero altrimenti impossibili da disegnare a mano libera può rappresentare un qualcosa di innovativo (si veda, ad esempio l’architettura di Frank Ghery) ma a risentirne è proprio la genesi del progetto e la sua evoluzione e a risentirne è anche il delicato rapporto che si viene a creare fra l’uomo e l’architettura, esempio tangibile di questo è stato il confronto fra il Maxxi di Zaha Hadid e il quartiere dell’ Eur progettato durante la dittatura di Mussolini. Nonostante l’aspetto megalitico e titanico delle costruzioni dell’Eur si aveva l’impressioni di trovarsi di fronte ad un sublime quasi Kantiano, capace di affascinare proprio perché fa sentire piccolo l’uomo, al contrario nel Maxxi ho avuto un’impressione quasi di freddezza, di distanza che rendeva la struttura quasi inaccogliente.


A rendere più affascinante i progetti nati dal disegno non è solo la loro (a volte) utopia, ma anche lo studio ed il sacrificio tangibile, i fogli di carta erano quasi impregnati delle fatiche del loro progettista; ma c’è anche un’altra cosa che mi ha colpito particolarmente e che si discosta dalla semplice filosofia progettuale: il tema della memoria.
Ho sempre creduto che, realizzando una costruzione, si lasci un segno tangibile della propria esistenza, così i progetti preliminari su carta che hanno portato alla realizzazione sono testimonianza di un modo di operare, di uno stile che ogni progettista aveva, il digitale annulla tutto questo: i bit sebbene infinitamente replicabili sono in balia dell’evoluzione tecnologica, un formato che oggi si usa largamente potrebbe diventare obsoleto in meno di quindici anni, i progetti digitali sono molto più semplici da perdere (a chi non è mai sparito un documento sul pc?) e soprattutto, non possono minimamente vantare l’artisticità di quegli schizzi e lavitalità che nascondono.

                                                                                           - P.

lunedì 15 aprile 2013

Che cos'è l'aura dell'opera d'arte?


Prima di intraprendere questo viaggio nella contemplazione dell’opera d’arte, propongo al lettore una domanda sulla quale riflettere qualche istante.
Che cos’è l’aura?
Questo termine venne usato in Estetica dal critico e sociologo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) per indicare il carattere individuale e di unicità dell’opera d’arte originale rispetto alle sue possibili riproduzioni nell’epoca della sua fruizione di massa.
In altre parole, per aura si intende l’ hic et nunc dell’opera d’arte, poiché la sua essenza unica è autoritaria, autentica e irripetibile nel luogo in cui si trova.
Non a caso l’etimologia della parola è ripresa da aureola (come quella che circonda le immagini dei santi) e da alone, il quale che circonda e avvolge ogni individuo, come negli scritti di carattere misterico o teosofico.
L’aura, quindi si trova a coincidere con il significato culturale dell’opera in questione. Per meglio spiegare quest’ultimo concetto, Benjamin si rifà al mondo classico e scrive:

Un’antica statua di Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura.”

La fondazione dell’arte prima nella magia poi nel rituale costituisce il primo e originario valore d’uso dell’opera, che coincide con quello che il critico tedesco chiama valore culturale.
Se si considera l'opera alla luce di questo canone, l’ aspetto estetico viene posto in secondo piano rispetto all'elemento magico e religioso di cui essa è rappresentazione. È bene chiarire infatti che specialmente agli albori della storia dell’arte, l’uomo ha concentrato le sue forze sul significato dell’opera.
Il caso delle grotte di Lascaux ne è un esempio:

L'alce che l'uomo dell'età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. Oggi sembra addirittura che il valore culturale come tale induca a mantenere l’opera d’arte nascosta: certe statue degli dei sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella."

Il fondamento della sua autenticità e della sua autorità come originale risiede quindi nell'unicità della collocazione spazio-temporale, ossia la sua capacità di assumere il ruolo di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia infatti sul permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere e sulla loro conservazione e celebrazione in spazi dedicati, come i musei, o nei quali esse si radicano nella loro unicità.
L’opera, quindi, per essere compresa, va contestualizzata nella sua origine, nella sua terra, nel suo tempo. 
Quando, invece, è l'aspetto estetico ad essere in primo piano, ovvero quando il dipinto o la statua vengono trasferiti dal luogo sacro in cui emanano la propria aura essi perdono il loro valore originario per acquisire un valore espositivo. Il tutto viene amplificato se si tratta di una riproduzione fotografica fruibile da tutti.
                                                                                                                      - Federica

giovedì 11 aprile 2013

SettimArte: Sofia Coppola - Il giardino delle vergini suicide



ANNO: 2000
PAESE: USA
REGIA: Sofia Coppola
SCENEGGIATURA: Gerard McMorrow
FOTOGRAFIA: Edward Lachman



Sofia Coppola nasce registicamente inizia nel 2000, con Il giardino delle vergini suicide. La carriera della figlia d’arte di Francis Ford seguirà poi un percorso di alti e bassi, punteggiato a tratti di grandi successi (Lost in translation, Somewhere) , e infelici trasposizioni storiche (Marie Antoniette) .
Per il suo primo lungometraggio, Coppola ha voluto fondarsi su un’opera letteraria, e di spessore non indifferente. Parliamo del romanzo omonimo dell’autore di origine greca Jeffrey Eugenides, che condivide con la regista l’amore per l’introspezione psicologica, in particolare quella femminile.
Non è facile immedesimarsi così tanto nell’altro sesso, d’altro canto Eugenides dimostrerà il suo spirito critico tratteggiando, successivamente, la storia di un ermafrodito, tanto per chiarire il suo punto di vista in merito. Coppola non ha mai fatto segreto della sua volontà di scandagliare le profondità dell’animo femminile, e questo non solo per fornire un punto d’appoggio a invettive femministe o mascherare sterili storielle romantiche.

Ispirato a una storia vera (o, con ogni probabilità, a più storie vere) , le due opere narrano della segregazione di un gruppo di cinque sorelle, tutte bionde e bellissime, da parte dei genitori nella Detroit dell’inizio degli anni ’70, gli anni dell’hard rock, della controcultura, quelli conseguenti all’epoca hippie e delle rivendicazioni femminili.
In casa Lisbon, tutto questo non esiste. La casa appare stracolma invece di statuine di santi e madonne e i dischi rock sono banditi e bruciati. Appare subito chiaro che non è un semplice caso di eccesso di protezione genitoriale, ma di una madre che si rifiuta di vedere non una, ma cinque figlie emanciparsi, o anche solo crescere, anteponendo un egoismo e una prepotenza esagerati a un processo tutto naturale.

Perfino le cinque ragazze sono talmente immerse nell’atmosfera claustrofobica e misantropa della famiglia che appaiono docili, anzi, sembrano quasi appoggiare ciò che la madre fa. Solo qualche frase sussurrata trapela, e questo avviene quando la situazione è ormai degenerata a livelli da paranoia : “Non possiamo nemmeno respirare!” sentiamo sussurrare da Lux, la furbetta del gruppo.
C’è da dire che il punto di vista delle eteree ragazze è reso in termini piuttosto enigmatici: il film, come il romanzo, è una sorta di dossier, realizzato da un gruppo di compagni di scuola delle Lisbon, colpiti dalle ragazze e decisi, forse, a liberarle. Parliamo di ragazzi compresi tra i 15 e  i 17 anni, quindi è facilmente intuibile quanto sia limitata la portata d’azione, anche se questi giovani innamorati ce la mettono davvero tutta per riuscire nel loro intento. Le ragazze, quindi, viste con i loro occhi, appaiono sorridenti, silenziose e “alienate” , tanto da far sospettare che la situazione familiare le abbia traviate e sottomesse, o che addirittura non avvertano nessun problema. Si possono contare decine di scene in cui le giovani vengono ritratte in gruppo, senza scambiarsi una parola. E’ il sintomo di un’America che non è ancora completamente cambiata, una provincia ancora legata a vecchi sistemi, intorpidita e annoiata, tutta compresa nel proprio autocompiacimento religioso, tanto da schiacciare completamente l’individualità.
L’opera cinematografica risulta quindi uno strano quadro corale, in cui un gruppo ne descrive e racconta un altro.

Nel film è assente la figura di Karafillis, la vicina di casa greca, non a caso come l’autore del romanzo, che istruisce le ragazze in un senso tutto nuovo, avvicinandole a dottrine mai sentite, somministrate in maniera spicciola ma del tutto efficace, tanto che, quando la vecchia signora enuncia “la vita è una perdita di tempo” , ecco scattare qualcosa. Quelle ragazze che erano apparse del tutto influenzabili, leggere, allegre quanto possono esserlo delle teenager, capiscono e arrivano a soluzioni estreme.





La prima a cedere è la più piccola, che vede nelle sorelle maggiori i propri anni futuri. Ognuna delle ragazze è distinguibile solo per alcune particolarità, che per la verità appaiono evidenti solo per i ragazzi innamorati, in una sorta di feticismo sentimentale: quello di Cecilia è un vecchio e sporco abito da sposa, l’unica cosa che indossa, un po’ come Remedios, la bellezza presentata in Cent’anni di solitudine, che vive in maniera del tutto inusitata e bizzarra, come bizzarra risulterà essere la sua storia e la sua “fine” .

Sarebbe un po’ strano definire bizzarra anche la fine di Cecilia, se si può liquidare con “strano” il suicidio di una tredicenne. Il comportamento della bambina, piuttosto, sa tanto di martire, da quando la vediamo galleggiare nella vasca colma di sangue, al suo primo tentativo di suicidio, a quando reagisce alla vista di un ragazzo down invitato alla sua patetica festa di compleanno, e si avvia lungo le scale come se fosse il Golgota, un breve calvario.

Non è facile spiegare le ragioni di un gesto estremo quale il suicidio e non è nemmeno corretto. Senza avventurarsi in giustificazioni formali e spirituali, ognuno, come dice Eugenides, può arrivare a rivendicare il diritto di assurgere a Dio della propria vita, e le ragioni spesso poco importano.
La visione di casa Lisbon svuotata, quella casa che abbiamo conosciuto in ogni suo angolo, in ogni momento dell’anno, di cui abbiamo scansato i panni sporchi sparsi per casa e gli spuntini smozzicati abbandonati sulle scale dalle ragazze, è significativa: compreso il fallimento, tutto è messo in vendita, anche le cianfrusaglie da due soldi. Tutto quello per cui si era lottato fino a un minuto prima, improvvisamente non ha più valore.
Curiosamente, nessuno o quasi si cura della reazione dei genitori alla morte di cinque figlie, ed è anzi tratteggiato in via del tutto superficiale: il padre (professore) che appare ancora più confuso e distratto di quanto non fosse, la madre che si giustifica con la solita scusa “volevo solo che fossero felici” . Mentre nel film questa donna ha le sembianze mirabili di Kathleen Turner, gigante del cinema americano, nel romanzo essa appare una figura quasi di secondo piano, mai approfondita, quasi come se i ragazzi che narrano la storia ne fossero spaventati.
Assurdo come una tragedia di tali proporzioni sia notata via via che ci si allontana dal portico di casa Lisbon: le ragazze sono totalmente imperturbabili, in casa si avverte solo un velo di tensione, le vicine sparlano e il notiziario locale manda la propria giornalista ad analizzare la vicenda. Il divario è tanto che sembra che solo quest’ultima sembra percepire il malessere, la disperazione che aleggia nella casa.

La potente fotografia è funzionale alla causa, foriera di significati: mirabile l’uso del viraggio, dall’azzurrino dell’alba tragica in cui si sveglia Lux, sedotta e abbandonata su un campo da baseball, proprio lì dove credeva che facendo “il grande passo” sarebbe cresciuta risolvendo la situazione, al verde torbido della festa in maschera finale, laddove vengono celebrati i futuri successi di una ragazza più fortunata delle cinque protagoniste, una festa dove tutta la tragica vicenda appare già opportunamente dimenticata, ma, nonostante quella dei fumi tossici e delle maschere antigas sia una farsa, appare chiaro che è ben più di un semplice sollazzo: impossibile non pensare alla frase esclamata da Lux “non possiamo nemmeno respirare!” , è il mondo tentacolare degli adulti che si rifiuta di lasciar vivere quello dei propri figli, in un assurdo gioco autolesionistico e inconsapevolmente crudele e controproducente. A che pro fare figli se non si è capaci di farli crescere?

Registicamente, Coppola condensa il breve romanzo in una novantina scarsa di minuti, ma la trasposizione è perfetta. Utilizzando riprese fisse, come se fossero quadri, spesso anche silenziose, ne risulta una immediatezza notevole e onnicomprensiva, tant’è che poche cose sono state tralasciate rispetto al romanzo. Per dirla in breve, alla Coppola basta un’immagine, uno sguardo, per rendere una particolare situazione, o una particolare emozione.
La colonna sonora, poi, è ovviamente ispirata dal periodo storico: accanto a pezzi di rock duro, come dicevamo, appaiono brani pop e country dal sapore leggero e adolescenziale, quasi una cerniera tra due epoche, tra due modi di vivere, un po’ come risulta essere il biondo quintetto.


mercoledì 3 aprile 2013

Social network e sociologia spicciola

Le vacanze di Pasqua sono sempre strapiene ma ciò che è peggio sono i giorni che seguono la festa, dove sembra che gli impegni si siano raggruppati quasi per dispetto.
Chiedo scusa ai lettori se, nell'ultimo periodo, c'è stato un po' di disservizio, ma fra parenti ed impegni vari (ossia ESAMI) per noi tre del blog "The Philosopher's Cave" è un periodo davvero pieno, forse dovremmo diventare dei giocolieri per poter riuscire a giostrare meglio le cose da fare! Ma non preoccupatevi, il lavoro continua e presto le famose novità ventilate nell'ultimo mese diventeranno una realtà!
Proprio poco prima di iniziare le "vacanze" mi sono trovato a conversare con una persona che stimo moltissimo su un argomento piuttosto attuale, quello della tecnologia "sociale" e il milione di messaggi di auguri che ho ricevuto a Pasqua ( fra twitter, facebook e messaggi) mi ha ispirato per un articolo un po' diverso: così, solo per oggi, abbandono i panni dell'aspirante critico d'arte e indosso momentaneamente quelli del sociologo spicciolo.
Siamo tutti connessi: è questa una (triste?) realtà. Volenti o nolenti abbiamo tutti una pagina facebook, e chi ne è sprovvisto è passato dall'essere “alternativo” al guadagnarsi il molto meno eroico epiteto di “sfigato”. Se ripenso al primo computer con Windows 95, che papà aveva portato a casa meno di 15 anni fa, e ai suoi evidenti limiti sembra assurdo come, oramai, siamo tutti armati di smartphone, tablet e pc portatili, perfino leggere un libro sta diventando un gesto “vintage” visto che oramai sono arrivati gli e-book reader!
Facendosi una passeggiata in centro città si viene letteralmente bombardati da sms, whats'app, tweet, squilli e messaggi su facebook, sembra quasi che questi mezzi si siano evoluti fino a diventatare quasi un'estensione del nostro cervello, una cosa che avrebbe sicuramente affascinato Marshall McLuhan. Ci sarebbe da chiedersi se questo prepotente ingresso sia deleterio per le relazioni sociali, visto che oramai anche un gesto insignificante come un “mi piace” su facebook sembra aver acquisito un significato più profondo. Proprio qualche sera fa mi trovavo al pub con alcuni amici ed ho visto un tavolo vicino al nostro dove 5 ragazzi erano praticamente ipnotizzati dai loro smartphone e mi sono chiesto: “Ma i social network... Ci renderanno forse più soli?”. Domanda da un milione di dollari del sabato sera, probabilmente, ma io credo che aldilà delle frasi fatte e dei discorsi da moralizzatore ci sarebbe da contestualizzarsi nell'era della modernità, dove tutto cambia con una rapidità spaventosa e chi si ferma sembra perduto, come una vera e propria evoluzione darwiniana tecnologica.


Se noi guardiamo la densità di comunicazione questa è certamente aumentata e le nuove tecnologie ne sono state un impulso fondamentale, il problema è nella “significatività” della comunicazione, cioè quello che ci si scambia quando si comunica: c'è chi parla di “villaggio globale” dove però siamo tutti più soli. A mio modesto avviso bisognerebbe imparare a guardare certe dinamiche con un doppio occhio, uno rivolto ai processi critici e uno che guarda ai processi positivi della comunicazione. Forse sarebbe sufficiente mettersi nel “giusto mezzo” aristotelico, senza vedere la tecnologia come un demone orribile ma senza neanche farsi assorbire totalmente in essa: prendendo l'esempio di facebook si nota che questa piattaforma permetta uno scambio di informazioni notevole, rendendo possibile l'interazione costruttiva fra due persone geograficamente lontane; e volendo parlare di “amore ai tempi di facebook” è sicuramente interessante vedere come questo sia anche diventato uno strumento di seduzione, capace di far conoscere due persone che, prima, ignoravano l'una l'esistenza dell'altra. Il problema nasce quando non si capisce che il mondo virtuale deve essere un tramite per il mondo reale, un ponte che permette uno scambio che diventi concreto e non rimanga solo un'interazione fatta di bit: conoscere una persona su facebook, magari con interessi e passioni molto simili ai nostri è fantastico, ma se si lascia questa cosa nel virtuale non si potrà fruire di quanto di più genuino consente l'interazione faccia a faccia... E ci ritroveremmo soli in un pub a messaggiare con una persona che potremmo tranquillamente vedere e con cui, magari, prenderci quella birra che abbiamo ordinato che, di sicuro, avrebbe anche un sapore meno amaro.

                                                                                                          - P.


domenica 31 marzo 2013

Buona Pasqua!

Cari lettori,
anche per quest'anno le festività pasquali sono alle porte.
Tutto lo staff coglie l'occasione per farvi i migliori auguri di buona Pasqua, con l'appuntamento ai prossimi giorni per tanti nuovi articoli e riflessioni.

PS: come non allegare un'immagine artistica agli auguri?
Ecco a voi il polittico Averoldi del Tiziano ( in questi giorni in mostra alle Scuderie del Quirinale), presso Brescia.
AUGURI!!

mercoledì 20 marzo 2013

Pensieri sparsi dalla lontana pioggia


Piove fuori dalla mia finestra.
Piove fitto e il rumore delle gocce che cadono al suolo rimbomba nel mio orecchio. Riesco a percepire alcune reazioni: gli abeti bevono della regalata freschezza, la rondine trova riparo sotto un comignolo. I passanti si adirano perché non hanno di che coprirsi, mentre una macchina un po’ presuntuosa domina il percorso della strada bagnata.
Apro un libro e incontro il Vate.
Le sue parole si confondono con i suoni che mi arrivano.  Le gocce che piovono sulle tamerici sono le stesse che abbeverano i miei fiori e il cielo cimerino è lo stesso che avvolge la mia casa.
Penso.
Oh Ermione, sulle tue mani ignude piove, piove anche sulle tue leggere vesti.
L’acqua modella le forme del tuo corpo e il perlaceo della seta lascia trasparire il tuo cuore di pesca.
Tu sei avvolta  e illusa dalla favola bella, mentre la tua complementare creatura celeste ti cinge e si mescola con te e con le tue sensazioni.
Io, nell’intimità delle mie cose, non odo il canto delle cicale o quello del mirto o quello del ginepro.
Sento rumori metallici di macchine in moto, sento musiche lontane, sento voci gridare.
Intorno a me non vedo pini e abeti, ma il loro più triste epilogo: il legno lucido del mio tavolo sostiene i miei pensieri e l’accennato profumo delle sfiorite rose consola la mia solitudine.
Con me non vi è amico: posso pensarlo e vederlo in fotografia, o sentire la sua falsa voce al telefono.
Le mie mani non si stringono dolci ad altre, sui miei cigli non pendono gocce di rugiada, ma cupe preoccupazioni.
Tu, Ermione, non piangi di tristezza, ma di piacere. Le tue lacrime si confondono con le gocce di pioggia, ma l’altra tua anima le riconosce e le colleziona.
Vi rifugiate in ogni spazio, la natura aiuta il vostro incontro, la bella favola vi illude entrambi.
Non più di carne e di sangue siete fatti, ma di mandorle e di erbe.
Guardo le mie mani e vedo uomo, tocco il mio viso e sento pelle.
Ma con me c’è la Parola, c’è il Verso.
Non mi è concesso di assaporare il profumo della pioggia, né di fondermi con la rugiada.
Ma posso rinfrescare i miei pensieri con le Rime, le mie mani possono trasformarsi in tamerici, la mia casa si muta nel pineto.
Ed ecco che il nocciolo del mio cuore vibra all’arrivo della favola bella.
Non odo il canto del ginepro ma i passi di qualcuno che arriva al mio uscio.
Su di noi non scivola pioggia, gli alberi non ci uniscono.
Su di noi, ora, piove Speranza, le nostre anime, ora, sono unite dal Desiderio.
                                                                                                                            -Federica