mercoledì 3 ottobre 2012

Pittori vs. registi (parte 1): Goya ed il "weird".

Spagna, Fuendetodos 30 marzo 1746: nacque, ultimo di sei figli, un bambino che venne battezzato con il nome di Francisco. Dei suoi cinque fratelli la storia avrebbe cancellato ogni traccia, fino a farne dimenticare persino i nomi, egli invece sarebbe diventato il pittore del re, ed il più importante evento dell'arte figurativa in Spagna, dopo Velázquez e prima di Picasso.
Rifiutando la rivisitazione dell'antichità, meditando sul mistero della materia egli attraversa in un lampo tutto l'intervallo che separa il Rococò dalla pittura moderna, modernità che consiste nel rinnovamento assoluto che lo conduce ad esplorare un universo sconosciuto: in un momento storico drammatico egli, per primo, ripudierà le delicate e svolazzanti composizioni in voga, volgendo l'attenzione al grottesco, al brutto, al mostruoso che risiede nell'animo umano, «Il sonno della ragione genera mostri» si intitolava, non a caso, una sua celebre acquatinta.

Francisco Goya - Il sonno della ragione genera mostri
Pittore di corte ribelle, talmente abile da farsi gioco della nobile corte Spagnola senza che questi se ne accorgessero minimamente, veicolando nella sua pittura una forte denuncia sociale: nel ritratto “la famiglia di Carlo IV” la descrizione che egli compie è spietata, i nobili sembrano dei fantocci, ed i loro sguardi tradiscono una stupidità infinità, poco adatta a dei reali. Le ombre si muovono rapide, strisciano e creano macchie, lasciando intuire quanto di marcio si possa celare dietro la nobile famiglia del re, la nobiltà mostruosa, del resto, era già stata rappresentata da Goya in un'altra acquatinta dal titolo “L'uomo vive per essere succhiato”.

Francisco Goya - La famiglia del re Carlo IV

Una lettura incredibilmente simile, sebbene caricata da una forte valenza “splatter”, si può trovare nel primo film di Brian Yuzna, “Society – The horror” del 1989: il giovane Bill, rampollo dell'alta borghesia di Beverly Hills scoprirà ben presto che la classe dirigente è composta da orrendi mostri antropofagi che succhiano la linfa vitale dei poveri.
Nel film di Yuzna l'atmosfera, grottesca è data anche da un sapiente uso della fotografia: la prima parte della pellicola presenta una fotografia patinata in pieno stile anni '80, che descrive lo sfarzo ed il lusso dell'alta società di Los Angeles, ma al tempo stesso getta un senso di inquietudine che crescerà sempre di più fino ad arrivare al climax finale, dove dominano i filtri rossi, le luci fioche e le ombre nette. Se nei primi 70 minuti, tuttavia, il grottesco era ridotto soltanto a una “sensazione”, nei restanti 20 minuti Yuzna ci regala una delle scene più truculente della storia del cinema, senza disdegnare il politicamente scorretto, l'ironia graffiante e una quantità di sangue talmente elevata che solo Peter Jackson nel suo “Splatters” del 1992 riuscirà a battere.

La scena dell'orgia finale
Yuzna, tuttavia, sfrutta in una maniera sorprendentemente creativa la tematica splatter, senza scadere mai nel rivoltante o nel volgare, ma usando il sangue e la violenza fisica in maniera espressionista, i borghesi si deformano, mutano la carne in un osceno ribollire di sangue ed ossa, assumendo le forme più inquietanti. Essi si cibano di altri esseri umani, i poveri (che sono “di un'altra razza”, come proclamato da un appartenente a questa casta) cui succhiano la linfa vitale, durante degli orrendi festini dove regnano depravazione e perversione (maestosa la scena dell'orgia incestuosa fra madre, padre e figlia). Il collegamento alle opere di Goya risulta immediato, ma non solo nel ritratto di corte, la stessa atmosfera allucinata, si ritrova in una delle più cupe fra le “pitture nere”, «il Sabba»: i colori scuri e sabbiosi (che ricordano la luce rossa delle scene finali della pellicola di Yuzna) sfociano in questa lunga striscia di tenebra e di abisso, le streghe dai volti deformi si addossano in semicerchio, assumendo l'aspetto di un'unica massa di carne pulsante, un miscuglio inconoscibile che osserva l'ascesa da terra del grande caprone. La stessa folla disumanizzata, uno dei temi prediletti (nonché scoperta socio-psicanalitica) di Goya, si ritrova in un'altra “pittura nera”, «Il pellegrinaggio a San Isidoro»: una processione di strani personaggi deformi, inquadrata in un paesaggio brullo ed arido, anticipando così di cento anni il «Viaggio al termine della notte» di Céline.

Francisco Goya - Il Sabba delle streghe
Francisco Goya - Pellegrinaggio a San Isidoro
La denuncia sociale, tuttavia, non è l'unico tema a rendere Goya un pittore così moderno, il suo intteresse per l'occulto, l'irrazionale e delle trovate al limite del blasfemo, avvicinano Goya ad un altro regista weird, Edmund Elias Merhige ed il suo «Begotten» del 1991.

Si tratta, senza ombra di dubbio, di uno dei film più inquietanti ed enigmatici del panorama cinematografico moderno, già a partire dal linguaggio: il bianco e nero distorto e confuso della cinepresa con cui è stato girato (che ricorda moltissimo lo stile musicale del Grunge, protagonista proprio di quegli anni), i personaggi muti e mascherati, l'incredibile colonna sonora composta da suoni provenienti dalla natura ed i contenuti al limite del blasfemo, ne fanno una delle massime espressioni del weird. Anche la trama risulta confusa: in un diroccato casolare in campagna, un uomo mascherato si suicida lacerandosi lo stomaco con un rasoio, alla sua morte, dal sipario posto dietro, compare una donna, che masturba il cadavere e rimane incinta, partorendo un figlio, una sorta di umanoide debole e gracile. Dopo un viaggio incontreranno una tribù di uomini incappucciati, che li sevizierà per poi ucciderli brutalmente, dal sangue delle due vittime nasceranno piante e fiori. A questo punto, arrivano gli shockanti titoli di coda, in cui lo spettatore confuso viene a conoscenza dell'identità dei tre personaggi: l'uomo mascherato è Dio, che con la sua morte genera Madre Natura, che a sua volta darà la vita al Figlio della Terra, entrambi martoriati dagli uomini (vestiti volutamente, tutti uguali).

Scena del suicidio in "Begotten"
Il parallelismo con Goya ha dell'incredibile, in quanto le scene di Mehrige ricordano drammaticamente un'altra “pittura nera”, «Le Parche»:sorprendente la somiglianza cromatica dei grigi fra il dipinto ed il film, le tre figure mitologiche hanno i volti deformi ed abbrutiti che richiamano terribilmente la maschere dei tre protagonisti della pellicola, il paesaggio di sfondo ricorda moltissimo la campagna vista nelle scene iniziali del film.

Francisco Goya - Le Parche
La violenza a cui è sottoposto lo spettatore durante la visione e l'angoscioso finale portano all'ultimo termine di paragone, l'ultima “pittura nera” nonché opera capitale della storia del'arte figurativa europea, «Saturno che divora un figlio»: immerso in un cupo sfondo nero, la figura di Saturno, con gli occhi fuori dalle orbite e gli arti mutilati dal buio, è ritratta mentre divora uno dei suoi figli, con una cura del particolare truculento che farebbe l'invidia di molti registi horror attuali. Non è soltanto la violenza e il forte impattivo emotivo, però, che accomuna le due opere: Saturno, che secondo la mitologia aveva mangiato i suoi figli per impedire loro di succedergli al trono, qui è rappresentato come un mostro antropofago, come se per vivere avesse bisogno di quel pasto cannibale, così come la morte dei due personaggi Madre Natura e Figlio della Terra, seppur brutale, contribuisce alla rinascita della natura. Saturno (Crono per i greci, signore del tempo), figlio di Urano (dio del cielo) e di Gea (madre terra), cacciò suo padre e sposò Rea, dalla quale ebbe molti figli, l'unico supersite, Giove, lo avrebbe spodestato. La morte che genera vita, come nelle prima misteriosa scena del film e come lo stesso Nietzsche predisse con la frase «Dio è morto»: la morte di Dio permette alla materia di prendere forma, come un sacrificio.

Francisco Goya - Saturno divora uno dei suoi figli
Un viaggio bizzaro quello del grottesco, confinato nei meandri del “carnascialesco” nel medioevo, malvisto nel Rinascimento, emerge timidamente nel Barocco per poi essere di nuovo ostracizzato dalla bellezza ideale del Neoclassicismo. Sarà proprio il Novecento a regalare al grottesco, al “weird” un posto di primo piano, in tutte le sue infinite sfaccettature. Film come quelli di Yuzna o di Mehrige (ma vale la pena ricordare anche Cronenberg, Lynch o Tsukamoto) hanno sconvolto il grande pubblico, spaventando non per i contenuti forti o truculenti, ma per la mancanza assoluta di possibilità di comprensione, terrorizzandoci per il loro essere così inaccessibili ed enigmatici.
Sarebbe banale, quindi, dire che la modernità di Goya sta nella critica sociale, nella satira politica o nell'interesse per l'esoterico ed il mostruoso, altrettanto scontato risulterebbe notare come la sua opera abbia aperto le strade all'Espressionismo o al Surrealismo: c'è di più dietro tutto questo, per la prima volta in secoli e secoli di tradizione pittorica, un uomo solitario ha avuto il coraggio di andare al di là del comprensibile, rifiutando la bellezza ideale rincorsa da tutti gli artisti, un grottesco come espressione dei meandri più oscuri ed incomprensibili dell'animo umano.
Per questo motivo le tele di Goya affascinano e inquietano al tempo stesso (come «Society» o «Begotten»), risultando, ancora oggi, tremendamente attuali.

                                                                                                                          - P.

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