mercoledì 21 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Focaccia Blues


Regia: Nico Cirasola
Anno: 2009
Paese: Italia
Genere: docu-fiction
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Alessia Lepore
Cast:  Dante Marmone, Tiziana Schiavarelli, Luca Cirasola, Renzo Arbore, Lino Banfi, Michele Placido, Nichi Vendola




Partiamo col riferire che il docu-fiction in oggetto è stato definito nei modi più disparati: cinema-realtà, frutto di intrighi politici e falsità giornalistiche, una campagna pubblicitaria ben celata, solo burla, un gioiello. Ai fini dell’analisi filmica questo interessa poco; non sono stati in pochi a pensare che se fosse vera, la storia, sarebbe un piccolo miracolo. Se fosse falsa non cambierebbe poi un granché, sarebbe solo da ritenersi un finto documentario. Doppiamente finto.
La storia, in ogni caso, ha un fondo di verità inoppugnabile: 2001, Altamura, Puglia, in un piccolo paese delle Murge viene aperto un gigantesco McDonald, costretto però a battere in ritirata quando una focacceria locale viene a sua volta aperta nei dintorni, riscuotendo più successo e giusta lode. Corredata, la storia, da una serie di interviste a personaggi del posto come a celebrità pugliesi, in veste di “testimoni” , viene a emergere tra loro innanzitutto la figura di Onofrio Pepe, che si reca a Chicago a girare un reportage sul luogo dove fu aperto il primo “Maccy” e, provocatoriamente, si mette in testa di esportare anche lì la famosa focaccia.
C’è sicuramente qualcuno che non la conosce: farina, lievito  olio, patate, sale e pomodorini freschi a condire. Sembra si sia scatenato il putiferio, e per questa semplice golosità? Sì, perché il regista, che ci ha abituato ai suoi toni epici, la configura  fin da subito come uno scontro epocale, purtroppo a finale prevedibile, se è vero che i buoni vincono sempre alla fine delle favole…Per la stessa ragione Dante (Dante Marmone) conquista l’amata signora Rosa (Tiziana Schiavarelli) , dopo essere tornato a casa con le pive nel sacco il giorno prima, già immaginando di essere stato surclassato dal bizzarro rivale, uno sgargiante Manuel (Luca Cirasola) .

Il film per l’appunto si svolge su tre filoni narrativi, che da spartire hanno poco: il primo, le interviste alla gente del posto (già preparate, ovviamente) , in toni ora rilassati e fiabeschi, alla Hemingway, ora più faceti e immediati, con risate che esplodono spontanee; il secondo, il reportage di Pepe da oltreoceano, un po’ il “continua alla prossima puntata….” dell’American dream che, se collocato in sequenza temporale cronologica con le altre opere del regista capiamo che si configura come la giusta conclusione al sillogismo implicito concepito da Cirasola; il terzo, la storia d’amore immancabile, classica, quasi muta, quindi mimica, in cui la scala cromatica e i giochi di riprese e montaggio la fanno da padrone, in un puro esercizio di regia.

E’ uno degli ospiti più famosi ad aprire l’opera, anzi a proiettarla, in un gioco di scatole cinesi, nella  penombra: Michele Placido, che come neanche il più navigato degli opinionisti di cinema, ci introduce alla visione raccontando le sue impressioni. Dopotutto è un pugliese anche lui, e ci tiene farlo sapere. Segue una ripresa quasi a cartoon sulle testate di mezzo mondo che parlano dell’episodio, ricollegandoci alla magniloquenza del regista, e poi si parte subito con la carrellata di ospiti, in una galleria di arti e mestieri del paese di Altamura, che viene dipinta come neanche fosse il crocevia dei record culinari a partire dal macellaio più anziano d’Italia, e proseguendo con lo stesso protagonista della vicenda, il panettiere Luca Di Gesù, che però non è messo in evidenza, è un testimone alla apri di tutti gli altri. E si capisce quindi subito che Cirasola ha scelto come primadonna Dante Marmone, nel filone più improbabile del film, ma di sicuro il migliore dal punto di vista puramente di cinematografia, come sul versante simbolico. Sarebbe troppo facile etichettarla come una storia d’amore tout court e poi i riferimenti alla vicenda principale sono tanti: dalla figura del’intruso (il Maccy) , alla donna nostrana abbondante e piaciona (la focaccia, che guarda caso lei prepara in un tripudio di voluttà non solo culinaria) , al nostro eroe che riesce a spuntarla nonostante l’”impareggiabile” concorrenza, anche se l’intruso sbeffeggiato in maniera oltremodo comica è uno dei punti forti della pellicola. Perfino i colori sono simili, quel giallo acceso delle collinette del MacDonald si rispecchiano infatti nella decapottabile di Manuel, quell’insegna cha va addirittura a fare ombra ai pomodori messi ad asciugare da Dante, pomodori che saranno quasi il suo doppelganger per tutta la visione. La nostra cara signora, che inizialmente cade nella stravagante spirale di seduzione dello straniero, si ricrede dopo averlo visto spostare schifato i pomodori della focaccia, e anche qui il simbolismo si spreca: è la società globalizzata che elimina quel fastidioso condimento, troppo sano, troppo povero. I rischi sono quelli che si vedono e che i testimoni del regista commentano, quelli di un appiattimento e di un omologazione inarrestabile, oltre che un ovvio impoverimento dei prodotti culinari e non solo. Il regista mostra di sapere fare anche l’avvocato del diavolo, portando tesi anche a favore della parte avversaria: mostra, perché le uniche note positive a favore del Maccy sono di un gruppo di anziani che lì trovava refrigerio, di una mamma che ci portava i bambini come neanche a un doposcuola, e di un gruppo di ragazzi che del ristorante faceva il suo punto di ritrovo. Ma non dimentichiamoci che il ristorante ha comunque una proprio tradizione: viene citato l’anno d’apertura del primo MAcDonald a Chicago, e forse è questa l’unica nota veramente positiva a favore, il far poggiare l’avversario su basi simili alle proprie, in questo caso la tradizione, in modo che il trionfo sia ancora più brillante
La si può leggere, infatti, come un’amara riflessione sullo scorrere del tempo che cancella ricordi e tradizioni, in favore del nuovo, che il regista felicemente riscrive in una favola giornalisticizzata, una difesa appassionata di buone novelle, corredata da giuste citazioni in forma di proverbio (“Abbiamo avuto tutto quello che ci serve per vivere meglio…basta sceglierlo”) , come la si può anche leggere come l’ennesimo omaggio del cineasta alla sua terra natia, con i suoi vicoli, le sue personalità, i suoi bambini, il suo dialetto. Una difesa scherzosa è ripresa dal duo comico Arbore-Banfi, che si sfidano a colpi di tegami nell’epico derby Foggia-Bari, con addosso improbabile grembiuli e tagliuzzando prelibatezza locali, mentre ne vengono decantate le proprietà: i vati della culinaria comica pugliese.


Non perdono neanche tempo a improvvisare una sigletta in stile blues, come infatti il titolo dell’opera recita. E difatti degli squisiti motivetti in stile si rincorrono per tutta la visione, sottolineando per contrasto la trama: il blues sembra entrarci poco nel contesto, ma ci rendiamo poi conto che i suoi suoni grezzi ma al contempo semplici e familiari come solo il blues sa esserlo, con gli immancabili tre accordi canonici, ci riportano a casa.
Nota particolare sulla scena del giornalista francese: come neanche nei più navigati dei thriller, alla sue spalle entra totalmente fuori luogo e fuori tempo, accentuando la sua idea di intruso, il famoso Manuel, sottolineato da un giro di contrabbasso quasi inquietante, come se neanche dovesse saltar su a pugnalare alle spalle il malcapitato. Difatti anche altrove la presenza dello straniero, di cui non è chiaro il perché e il percome si trovi lì e a che titolo, risulta quasi imbarazzante: lo vediamo in giro vestito con improbabile giacca sgargiante  ed espressione non troppo furba, mentre sfreccia per tratturi polverosi con la sua coupé di un giallo tremendo, full optional. Optional che, come nel caso del gps, puntualmente lo tradiscono.

Il regista non si risparmia e, caro alla sua personale tradizione, si compiace di questi piani lunghissimi sul paesaggio colorato, di queste panoramiche delle strade e dei tratturi, mentre in paese stringe parecchio il raggio di ripresa (per ovvie ragioni) , ma tanto da non lasciare quasi spazio se non ai personaggi. Nelle riprese americane è, al contrario, aereo, spazioso, seppure plastico in certi momenti, come una cartolina, si diverte a cercare le stravaganze di un lampione stradale e delle mille luci della città, un bambino nella terra dei giocattoli, a far assaggiare anche a noi quaggiù un pezzetto favoloso dell’America. Per i colori, come sempre, funziona alla perfezione la fotografia, con un bilanciamento cromatico e di contrasti apprezzabile e divertente, i giusti colori a sottolineare i giusti soggetti, come per ogni tocco eccessivo di tonalità ce n’è sempre uno più cupo o tenue a equilibrare. Anche i colori del cibo sono da tenere in considerazione, non a caso vengono riprese in modo ottimale tutte le botteghe del paese, con i loro colori vividi, mentre mancano gli interni di un MacDonald. E in questo, caro regista, c’è una falla di democrazia.
I primi piani sono particolarmente piacevoli, apprezzabilissimi quelli sulla protagonista femminile, la Schiavarelli, come del già citato Marmone. Parliamo comunque di riprese desunte dalla tradizione del reportage, che il regista sa fingere egregiamente, portando avanti fino all’ultimo il suo gioco.
Forse non è stata felicissima l’idea di riportare tutto quel numero di ospiti,  in particolare quelli celebri: passino gli attori consolidati, ma Vendola non risulta particolarmente a proprio agio. Meglio in politica.

In conclusione, c’è da dire che è stata una scelta difficile, osteggiata e combattuta, in cui qualcuno ci vede qualche forzatura e mancata verità sulla trama. Di sicuro di vero ci sono i motivi scatenanti, le cause, gli ideali, e a noi non importa, dopotutto, se la cosa sia andata veramente come viene raccontata. Cirasola è riuscito nel tentativo di farne una commedia di denuncia, ma leggera e divertente.

-R.

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