mercoledì 30 gennaio 2013

SettimArte: David Twohy: Pitch Black



Regia: David Twohy
Paese: USA
Anno: 2000
Sceneggiatura: Jim e Ken Wheat
Fotografia: David Eggby
Genere: Fantascienza


In un futuro non meglio specificato, un’astronave con a bordo un gruppetto di passeggeri di svariata natura precipita su un planetoide non identificato. Costretti a collaborare più o meno volontariamente per cercare una via di fuga, i “naufraghi” si imbattono in una specie aliena assetata di sangue da cui devono difendersi: queste poche righe basterebbero per liquidare Pitch Black come il classico b-movie fantascientifico con annessi e connessi mostri aberranti in CGI.

E invece le cose stanno diversamente e ce ne accorgiamo dai primissimi minuti: una voce fuori campo, non troppo rassicurante, parla fuori dal coro, spiegando come stanno le cose e affermando di essere un galeotto, a differenza degli altri civili suoi compagni d’avventura. Anche se non sappiamo cos’ha fatto, ci rendiamo subito conto che non è solo a doversi fare scrupoli morali: il comandante in seconda, svegliata dal sistema di allarme, scopre che la nave sta per schiantarsi e che, oltretutto, il capitano è morto; con lei si sveglia un altro membro dell’equipaggio che le impedisce di fare quello che ha in mente: liberarsi di tutto il carico, passeggeri criogenizzati compresi, per salvare la nave. O meglio semplicemente la sua vita. In questi pochi minuti perfino i non appassionati noterebbero la sequenza dell’impatto al suolo, iperveloce e dal montaggio serratissimo, adrenalinico, il particolare dell’occhio dilatato della pilota, in un chiaro rimando agli ultimi minuti di 2001: Odissea nello spazio, con tanto di spazio sterminato e abbacinante verso cui il/la protagonista stanno andando a tuffarsi, più o meno volontariamente.

Latore di un successo insperato per il regista, David Twohy, già addetto ai lavori in campo sci-fi ma senza troppo successo, e l’attore protagonista, Vin Diesel, Pitch Black risulta di difficile classificazione ma di sicuro impatto. D’accordo, c’è da fare i conti con una trama ai limiti del plagio (opera dei fratelli Wheat, già autori de La mosca II e Nightmare IV) , a partire dalla saga di Alien, ma occorrono una serie di spunti particolarmente interessanti. Prima di tutto: il cattivo.
Dopo la visione, ve la sentireste di rispedire Riddick, Richard B., l’evaso, nel carcere da cui è fuggito? O condannereste il capitano in seconda per la scelta suddetta? O magari ve la prendereste col cacciatore di taglie tossicodipendente, l’arcinemico di Riddick, tanto scaltro quanto ambiguo? C’è poco da distinguere tra buoni e cattivi, qui ognuno fa quello che crede giusto o conveniente. Abbiamo a che fare con personaggi estremamente umani e realistici, tanto credibili da farci addentrare e impersonare a fondo nella trama.
Il gruppetto, come nella migliore delle tradizioni, è a dir poco eterogeneo: oltre ai soggetti di cui sopra, vediamo un gruppo di muezzin, un paio di avventurieri e un ragazzino dalla sessualità ambigua. I riscontri si sprecano: la letteratura, a partire da I racconti di Canterbury, è piena di mezzi di trasporto “sociali” pullulanti degli individui più disparati. Per metterla sul piano della settima arte, come ci piace, abbiamo un chiaro esempio in Ombre rosse, storico film di John Ford con John Wayne, in cui effettivamente notiamo una situazione affatto simile, compresa la “redenzione” del protagonista Ringo Kid, un evaso (come i nostro Riddick) .
Distretto 13
Ma i riferimenti al Selvaggio West non sono finiti e, anzi, continuano in un gioco di scatole cinesi: è impossibile non ricondurre questa pellicola all’abitudine cara a John Carpenter di girare western travestiti, primo tra tutti Distretto 13, anno 1976. Se lì avevamo una situazione di desolazione e degrado metropolitano (il deserto) , pullulante di criminali pronti a tutto (gli indiani) , che uccidono senza farsi udire (il silenziatore che sostituisce le frecce) , contrastati da uno sparuto gruppo di poliziotti, civili e detenuti (eccoti un altro riferimento a Riddick) , passati di lì per puro caso – e il caso la fa da padrone in tutto il film di Twohy - , qui abbiamo un deserto vero e proprio, ma alieno, bestie aliene alate, dall’aspetto simile a mante, che sicuramente non saranno silenziose come gli indiani e i criminali di Carpenter, ma sono comunque in un certo senso menomate, essendo cieche e sensibili alla luce, e come abbiamo detto abbiamo un gruppo di persone costrette a collaborare, perdipiù con poche armi e nemmeno esattamente all’avanguardia, considerando che il film è ambientato in un futuro alquanto lontano. 

Fantasmi da Marte
C’è da ricordare che Distretto 13 è a sua volta un rifacimento di Un dollaro d’onore a sua volta un rifacimento di Mezzogiorno di fuoco, entrambi classici nel modo più assoluto del genere western, con tutti i pro e i contro. Del resto Carpenter non si è neanche fermato qui, ma ha girato un ulteriore film sul genere, Fantasmi da Marte, uscito proprio un anno dopo Pitch Black, che ha giustificato come un remake in chiave sci-fi del sanguinolento e rude Distretto 13.
Ombre rosse


Effettivamente i punti in comune con Pitch Black si sprecano, ma non sarebbe opportuno parlare di plagio o rimandi, quando di un comune attingere alle medesime fonti, di cui abbiamo appena parlato.

Tornando ai nostri naufraghi persi nello spazio, c’è da dire che tralasciando i cliché eroistici (in verità pochi, nel film) , essi sono tutti degni di nota; persino le nette dicotomie sono ben studiate, salvandosi dalla banalità insita in esse: legge contro caos, fede contro scienza, sessualità contro asessualità. Mentre del primo abbiamo già parlato, per quanto riguarda la seconda abbiamo accennato alla presenza di un gruppetto di muezzin, che si distingue per l’imperturbabilità, sfiorante l’ascetismo. Sebbene in alcuni momenti si cada nell’eccesso di solennità, con la classica snocciolatura di canoni dogmatici, la figura dell’uomo che non si scompone nemmeno davanti al massacro dei suoi giovanissimi allievi (e la scena di una bambina uccisa senza pietà l’abbiamo anche in Distretto 13) è perfino credibile. Questi musulmani sembrano poter perfettamente conciliare fede e religione, anche se con una puntina di critica si potrebbe intendere il voler a tutti costi interpretare ogni cosa sotto il segno di un progetto divino, com’è uso tra i devoti di ogni credo. Tra gli uomini, oltre alla suddetta coppia fuggitivo-inseguitore, c’è anche la curiosa figura di un commerciante sarcastico e occhialuto, che sembra più un contrabbandiere. La scena è contesa inizialmente da due primedonne, ognuna a modo suo autoritaria: Fry, la pilota, che assume il ruolo, tradizionalmente maschile, del leader imparziale e carismatico, ricordando molto la Ripley di Alien, film molto omaggiato qui, mentre Shazza, l’avventuriera, rappresenta la donna selvaggia, indomita eppur sensuale senza volerlo, una sorta di regina delle sabbie, perfetta in un ambiente come quello rappresentato. A questo va ad accostarsi lo strano caso di Jack/Jackie, una ragazzina travestita da maschio, un po’ come Ed, il/la genietto/a informatico/a dell’anime Cowboy Bebop, uscito un paio d’anni prima, di cui non si capisce l’identità sessuale finchè un evento critico non lo rivela. Nel caso di Jackie, è il suo ciclo mestruale che arriva giusto in tempo per attirare i mostri sanguinari sulle tracce del gruppo.

In effetti, la spedizione pare avvolta da un’aura di sfortuna: oltre all’atterraggio non previsto, si ritrovano in uno scenario desertico - in cui, c’è da dirlo, i derelitti respirano tranquillamente come se l’atmosfera fosse quella terrestre – e arido, in cui vengono ritrovati un cimitero degli elefanti (o comunque di enormi animali probabilmente estinti) e una base di ricerca, in cui viene rinvenuto un modellino dell’orbita del platenoide su cui sono atterrati. Platenoide che ha tre soli, i quali congiungono le loro orbite ogni ventidue anni, dando vita a un’eclissi, eclissi che si manifesterà proprio poco dopo l’atterraggio della nave.
Mad Max
Dal punto di vista stilistico, se la prima metà del film è, come Alien, al limite tra fantascienza e thriller, caratterizzata da riprese abbacinanti e dotate di forte luminosità senza ombre, solitamente monocromatiche e viranti nei colori del bianco-azzurro e del rosso-arancio (i colori dei tre soli) , un’azzeccatissima decisione di David Eggby, già direttore della fotografia in Mad Max (non a caso alquanto simile nella resa e girato nello stesso set del deserto australiano) , la seconda metà, più violenta, vede protagonista l’eclissi e l’ascesa delle creature assassine, e prevede quindi riprese notturne, con pochi punti luce, rappresentanti la salvezza dei protagonisti (che, comunque, vengono decimati uno ad uno) . Le riprese oscillano tra panoramiche vertiginose e interni soffocanti, stretti intorno ai pochi protagonisti e alle creature aliene che rifuggendo la luce si nascondono nelle cavità del terreno e nelle poche strutture disponibili.

Tra tutti, si aggira la misteriosa figura di Riddick, che per il primo tempo riesce a eludere la sorveglianza e si aggira, silenzioso come un fantasma, tra i rottami della nave in attesa di riparazione e i compagni che vagano sul suolo alieno. Le riprese in cui compare lo vedono apparire come un’ombra, sempre appostato a pochi passi dagli ignari protagonisti, in un tacito patto con lo spettatore, che sa, ma non può dire niente. Sembra quasi che Riddick sia sul punto di guardare in camera e sussurrare “Shhh!” . Le cose però evolvono e, da cattivo come l’aveva fatto apparire il sedicente poliziotto/cacciatore di taglie Johns, comincia a collaborare col gruppo, sfruttando la sua particolare visione notturna, dono, a suo dire, di un medico in carcere. Del passato di Riddick sappiamo poco e nulla, qualcosina la scopriremo dal seguito, Le cronache di Riddick, ma per ora è un semplice fuggitivo, un disperso su un pianeta sperduto e di più non ci interessa sapere.
Sebbene in alcune scene sembri evidente la voluta sottolineatura della prestanza di Vin Diesel (che diventerà famoso proprio grazie a questa pellicola) , qui funzionale alla causa, e un temuto ravvedimento finale del supercattivo (che non avviene, almeno non completamente) , l’epilogo riesce a riscattare le poche magagne del film, con una battuta finale che lascia il passo a infinite congetture su come questa storia potrà proseguire. Il pubblico non ne rimarrà deluso.

Girata in economia, quest’opera si è rivelata al di sopra di ogni aspettativa: ha il sapore dei b-movie, i classici film di genere, ha quel senso di già visto che serve a tranquillizzare lo spettatore, ma al contempo spunti nuovi, interessanti, e a tratti persino innovativi.

-R.

lunedì 28 gennaio 2013

L'altra faccia dei totalitarismi: l'arte a servizio del regime

Quando si parla di totalitarismo, tutti ci riferiamo agli avvenimenti storici e alle circostanze che hanno fatto in modo che si sviluppasse il fenomeno, con i suoi pro e i suoi contro, ma raramente ci si ferma a pensare e ad allargare la riflessione in altri ambiti. Con questo intervento, voglio presentarvi una nuova faccia della dittatura del XX secolo, una faccia che si intreccia con il filo rosso che lega tutti gli argomenti dei nostri articoli: l'arte e la cultura. Oggi, in particolare, un tipo di arte che si diventa manifesto di una precisa ideologia e testimonianza di un nuovo ideale di nazione forte e invincibile.
Nel caso della dittatura nazista, ricordiamo il ministro della propaganda Goebbels, "braccio destro" di Hitler e promotore dell'ideologia nazista. 
Nel 1933 Goebbels dichiarò di voler ripristinare i puri e autentici valori di un’arte tedesca e venne promossa una produzione figurativa culminata nella mostra del 1937 a Monaco. Dominavano i generi tradizionali: ritratti, nature morte, paesaggi e le immagini dovevano trasmettere i supremi ideali della nuova concezione ideologica del nazismo. Si propugnò il ritorno alla campagna con bucoliche scene campestri, si esaltò la guerra con rappresentazioni belliche, ma soprattutto l’uomo nuovo nazista fu riprodotto esaltandone i 
tratti somatici: donne bionde dagli occhi azzurri, bambini sani e sorridenti.
"L'Uomo Nuovo" secondo l'ideale nazista
In campo architettonico la committenza dello stato incrementò la produzione di edifici di rappresentanza e di autostrade soprattutto per favorire l’economia di guerra.
L’architettura ebbe un ruolo importante nell’esaltazione del potere perché mostrava sia indirettamente che direttamente l’ideologia del regime. Si ricordi Albert Speer, autore degli immensi spazi per le manifestazioni di Norimberga e per i progetti incompiuti della grande e monumentale Berlino.
Raduno nazista a Norimberga
Cambiando fronte e spostandoci a est, troviamo invece il grande impero comunista russo, guidato prima da Lenin e poi da Stalin. Entrambi i personaggi furono di grande rilevanza per il panorama sovietico del periodo: il primo si impose dopo le rivoluzioni del 1917, mentre il secondo applicò nell’immenso stato il processo di “russificazione”.
Nella nascente Russia sovietica, governo e artisti più intransigenti erano convinti che l’arte dovesse essere rigidamente subordinata alle necessità politiche e ideologiche del partito-Stato, cioè trasformarsi in un efficace strumento di educazione delle masse e costruzione del consenso intorno alla rivoluzione e ai suoi obiettivi. 
Non a caso, negli anni ‘30, la trasformazione urbanistica di Mosca divenne uno dei veicoli più eloquenti della propaganda staliniana.
Palazzo dei Soviet- modello
Nel 1931, venne abbattuta l’imponente cattedrale di Cristo Salvatore (simbolo dello zarismo e della Chiesa ortodossa) poiché Stalin volle sostituirvi un Palazzo dei Soviet di dimensioni ciclopiche: la sua mole, infatti, avrebbe dovuto essere sei volte quella dell’empire State Building e portare sulla propria cima una enorme statua di Lenin Questo tempio della nuova religione politica non fu mai eretto a causa dell’inadattabilità del terreno. 
Disegni con commenti di Stalin
I progetti di Stalin, allora, si indirizzarono allora verso la metropolitana della capitale, impresa che rese un effettivo servizio a una città in piena espansione, ma che ebbe anche una straordinaria funzione ideologica, dal momento che le stazioni più importanti erano abbellite da affreschi o mosaici che celebravano la rivoluzione e i suoi trionfi.
A tutti gli artisti, definiti da Stalin “ingegneri di anime” fu imposto un canone estetico ben preciso, che ricevette il nome di Realismo Socialista. Romanzi, manifesti e quadri dovevano esprimere ottimismo e presentare l’URSS come il “paese più felice del mondo”, all’interno del quale ciascun lavoratore offre con gioia ed entusiasmo il suo contributo all’edificazione del socialismo-stalinismo. 

Ora, a voi lettori lascio il gusto di trarre le vostre conclusioni, lasciandovi con un piccolo spunto di riflessione: non vi pare che i due totalitarismi apparentemente così tanto diversi abbiano poi così tante somiglianze?


Con l'occasione, lascio anche un piccolo pensiero in occasione della Giornata della Memoria, 27 Gennaio.
Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.Hannah Arendt (1906-1975), “La banalità del male”
 -Federica.


venerdì 25 gennaio 2013

Friday boulevard: best of the week

L'intervento di buon week-end oggi sarà abbastanza breve (è periodo d'esami per tutti, purtroppo) ma vorrei dedicare questo speciale di fine settimana ad una notizia che ha particolarmente catturato la mia attenzione.
Stavo ascoltando stancamente il telegiornalme mattutino, mentre cercavo di capacitarmi dell'inizio di un nuovo giorno di studio quando una notizia cattura immediatamente la mia attenzione, trascinandomi via dal limbo dei "dormienti in piedi": le "Primarie della Cultura".

Sul momento pensai che i risvegli "traumatici" possono giocare brutti scherzi e che andare a dormire sempre ad un'ora tarda sia proprio una pessima idea, quando però mi sintonizzo fra gli "svegli" capisco che non sono io ad aver capito male ma che, effettivamente, c'erano delle "Primarie della Cultura".
Curioso, pensai, che proprio in pieno clima elettorale, mentre veniamo costantemente bombardati dai messaggi dei politici, dai loro avventurosi proclami su come uscire dalla crisi e dai loro continui battibecchi, ci sia un'iniziativa così interessante promossa dal FAI.

Non mi dilungo nel descrivere e lascio soltanto il link al sito ufficiale, invitandovi a prendere parte a questa bellissima iniziativa!

                                                                                               - P.



giovedì 24 gennaio 2013

SettimArte: Joel e Ethan Coen - Il Grande Lebowski


Sono già reduci da svariati successi in campo cinematografico, quando, nel 1998, Joel ed Ethan Coen presentano Il grande Lebowski: sceneggiatori, registi, montatori, i fratelli di origine ebraica colpiscono sempre e comunque il bersaglio, entrambi conosciuti per rifuggire le luci della ribalta e le analisi, le discussioni più approfondite.
I Coen, infatti, si pongono in luce come consumati mestieranti della settima arte, senza pomposità, convinti che il tocco dell’autore possa rifuggire a ogni classificazione e ingabbiamento. Un comportamento e un modo di fare molto simile ai nostri classici registi neorealisti: i loro film, in maniera pura e semplice, raccontano storie degne di essere narrate, nulla più, ma la differenza la fa il come sono narrate.
In realtà c’è ben altro dietro, ma, portandola sul piano della diatriba tra alta letteratura (e cinema, di conseguenza) e letteratura di genere, sappiamo come la prima rifugga volontariamente alle “limitazioni” , se vogliamo definirle, della seconda, per orientarsi più verso la ricercatezza formale, per la complessità, se vogliamo, a discapito del tema, delle situazioni che possono o meno interessare un certo tipo di pubblico. Tralasciamo qui le annose discussioni sull’argomento e passiamo alla pellicola.

Jeffrey “Drugo” Lebowski, un simpatico nullafacente devoto solo al bowling, riceve la visita di alcuni sconosciuti che esigono il pagamento di una somma di denaro. Appare subito chiaro che c’è stato un caso di omonimia con il magnate Jeffrey Lebowski, a cui Drugo si rivolge per farsi risarcire il tappeto su cui i creditori hanno orinato per abbozzare la mala figura fatta. Qui Drugo capisce che i debiti sono stati contratti dalla giovanissima moglie del signor Lebowski, Bunny, che viene infatti rapita poco dopo. Drugo e i suoi due amici vengono assoldati per consegnare il riscatto e riprendere la ragazza ma, convinti che sia tutta una messinscena della donna per estorcere soldi al marito e scappare con un (presunto) amante, mandano all’aria l’operazione. Nel mentre Drugo fa la conoscenza della figlia di Lebowski, Maude, con cui ci saranno dei risvolti sentimentali, e di un impresario dell’industria pornografica.

Il film segue, in definitiva, un intreccio poco lineare e non convenzionale: molteplici linee narrative nascono e terminano, unite solo dalla figura centrale di Drugo. Gli stessi personaggi entrano in gioco in modo tutto nuovo ed estremamente realista, tratteggiando anche quelli apparentemente marginali con incisività. Sembra quasi di entrare nel mondo di Drugo, e dalla sua visuale vediamo i due amici di sempre entrare in scena quasi in sordina, in media res, come se ci fossero sempre stati, mentre Maude Lebowski, per fare un esempio, fa la sua entrata in scena nuda e a mezz’aria.  
La fotografia e le riprese seguono lo stile dei Coen, come già abbiamo visto in Arizona Junior, Fargo e vedremo in Fratello, dove sei? : i colori vividi la fanno da padrone, e perfino le scene notturne sono caratterizzate da una luce particolare, come succede anche nelle successive opere di Tarantino, che d’altronde non ha mai smentito i suoi debiti nei confronti dei fratelli. I Coen si deliziano in inquadrature particolari, come le panoramiche fisse piene di personaggi che dialogano (eccoti un altro richiamo a Tarantino) o, come già succedeva in Arizona Junior, riprese ai limiti dell’acrobatico e del surreale: memorabili quella dall’interno della palla da bowling, le riprese vertiginose dal basso (che ricordano le riprese metropolitane di John Landis) , quelle dei trip di Drugo, con il volo notturno sulla città pullulante di luci o l’intermezzo Gutterballs, con il protagonista che scivola rasoterra, estasiato, sotto un tunnel di gambe femminili.

Certamente la recitazione ha contribuito molto a tutto questo: il cast presenta una gran quantità di artisti che sanno il fatto. Steve Buscemi, nelle parti di Donny, un compagno di gioco del protagonista, fa la parte del perfetto ragazzone timido, ingenuo e mai completamente cresciuto, certamente a disagio tra le due forti personalità di Drugo (Jeff Bridges) e il grande e grosso Walter (John Goodman) , entrambi reduci a modo loro dal Vietnam. Se, come abbiamo capito già dal nome, Drugo è un ex-figlio dei fiori, i cui ideali storici si riversano nella logica attuale del prendi-la-vita-alla-leggera, Walter è un ex militare incavolato, armato e potenzialmente pericoloso. Ma con simpatia. Dopotutto anche il peggiore criminale, visto dagli amici, è una persona a modo. Il gioco delle parti però continua con gli altri personaggi: nonostante siano dipinti a tutto tondo, assumono l’aspetto grottesco, talvolta, di macchiette, e sembrano essere tutti in un certo senso antitetici tra loro, tutti frammenti dello stesso specchio, quello della curiosa società anni ’90 (di cui abbiamo già parlato in questo blog) .
Quello che accomuna i due Lebowski, per fare un esempio, è solo il nome, quando nella vita hanno seguito sentieri totalmente agli antipodi: uno quello del successo economico, l’altro quello del distacco dal mondo, dell’emarginazione. Ancora peggio è la figlia Maude (una stranissima Julianne Moore) , che sembra disapprovare tutto e tutti, completamente concentrata su sé stessa, la sua arte e i suoi obiettivi: vedremo che deciderà di concepire un figlio ex abrupto, senza chiedere niente a nessuno, nemmeno al padre del bambino. Anche le figure marginali del padrone di casa timido e amante dei musical, del giocatore di bowling pedofilo e ampiamente ambiguo, di un improbabile Saddam Hussein dietro al bancone degli scarpini da bowling sono riferimenti fin troppo evidenti: abbiamo una dissacrante critica degli ideali di ogni colore e tipo: vediamo il trio dei “nichilisti” (tra cui Flea e Aimee Mann) che al grido di “Noi non crediamo in niente!” fanno a pezzi decenni di pensiero sinistroide, ma anche la fissità, morale e fisica, del ricco signor Lebowski, bravo solo a inveire dalla sua sedia a rotelle, finta peraltro.



E’ una critica anche metacinematografica, con lo stravolgimento, come dicevamo, di ogni genere: l’opera varia dal noir, alla commedia, al drammatico, al comico, senza soluzione di continuità, anzi, sembra quasi che alla fine tutto rimanga in sospeso e a fine visione abbiamo l’impressione di aver semplicemente assistito a una sequela di fatti incredibili, uno spaccato di quella che è la vita di Drugo, che difatti sembra essere l’unico a non rimanerne minimamente toccato. La sua vita continua tranquilla come una partita di bowling, tra un White Russian e uno spinello, senza che, fondamentalmente, nulla sia cambiato. 
Certo, un amico gli è morto, ma con grande spirito comico (letteralmente alla Stanlio e Ollio) , Drugo (e per lui i Coen) riescono a sdrammatizzare anche lo spargimento delle sue ceneri, raccolte in un barattolo di gelato e che finiscono per riversarsi addosso a Walter. Il motivo? Vento contrario.

La colonna sonora è, ovviamente, legata a filo doppio agli anni ’70, al country e al southern rock d’annata: i Creedence Clearwater Revival la fanno da padrone, oltre a colonne sonore storiche di Piero Piccioni e Debbie Reynolds, e un’interessante ed eloquente sottolineatura musicale del cantante country Kenny Rogers, con la sua malinconica, ma scattante Just Dropped In, oltre agli Eagles in salsa Gipsy Kings.

-R.

lunedì 21 gennaio 2013

Andy Wahrol: quando l'arte incontrò il rock

Andy Wahrol: più che un artista, una vera e propria icona, tanto che a volte si è soliti far coincidere il concetto ed il movimento della cosiddetta "Pop-Art" con la sua persona. Si pensa subito ai suoi ritratti di Marylin o alla zuppa Campbells', spesso ignorando l'incredibile quantità di porgetti che Wahrol ha portato avanti durante la sua carriera: fu regista, attore, direttore della fotografia, sceneggiatore, montatore, produttore cinematografiche, produttore discografico e conduttore televisivo! La cosa che, però, mi ha sempre stupito di Andy Wahrol è stata la sua straordinaria capacità di contestualizzarsi, di inserirsi in un momento storico ed economico, quello del "boom economico" del secondo dopoguerra: non solo fu in grado di fornire una lettura della nuova epoca e del nuovo contesto sociale, ma fu amico di tutte le celebrità e dello star system americano ed internazionale dell'epoca.


Wahrol riuscì ad imprimere un'impronta indelebile nella sua epoca, spaziando in moltissimi campi: è stato molto attivo nel campo musicale, in veste di sceneggiatore di video musicali, artista per le copertine, ritrattista e manager, fu lui a scoprire il gruppo di Lou Reed e a proporsi come manager, produttore ed artista, imponendo anche la presenza di Nico nel gruppo, quasi per dare una chance in più alla band. Lavorò con i Rolling Stones e frequentava Mick Jagger e Keith Richards. Ha lavorato anche come ritrattista per i più affermati artisti del periodo, come Elvis e i Beatles, inserì un ritratto di Michael Jackson sulla copertina del Times all’ uscita dell’album Thriller e fino al giorno della sua morte si dedicò all’attività discografica (negli anni ’80 supportò oltre a Jackson anche Prince, Sting e i Duran Duran che erano il suo gruppo preferito).È stato anche fondatore della Factory, luogo in cui giovani artisti newyorkesi potevano trovare uno spazio collettivo per creare: qui sono nati o passati per un breve periodo altri famosi personaggi come Jean-Michel Basquiat, Francesco Clemente, Keith Haring. Nel 1980 fonda una televisione dal nome "Andy Warhol's TV", in cui negli anni successivi trasmetterà anche esibizioni dei suoi pupilli Duran Duran, gruppo che sosterrà sino al giorno della morte. Confesserà sui suoi diari: "Amo Nick Rhodes, è un genio. Ogni notte mi masturbo guardando i video dei Duran!".


Wahrol fu capace di legare la sua arte a tutti gli altri campi, o forse sarebbe meglio dire che applicò il suo concetto di arte a tutti i campi: a metà degli anni sessanta l'affermarsi dell'arte informale porta anche le copertine dei vinili a sfruttare per la loro immagine i materiali e gli oggetti del quotidiano, trasformando appunto il musicista in idolo e se stessa in mito. Nelle gimmick cover, notiamo il parallelismo dell’affermarsi di tali copertine con l’evolversi della scena artistica pop. Questo legame è rinsaldato dalla presenza in campo musicale di Andy Warhol, artista di punta della scena pop-art che si è anche cimentato con pregevoli risultati nel campo della grafica musicale: l’artista, di origini cecoslovacche, ma residente a New York, collaborò in maniera strettissima con i Velvet Underground di Lou Reed. I Velvet suonavano alla Factory e Warhol organizzava gli spettacoli di suoni, luci e proiezioni cinematografiche... questo è quanto scrisse Alberto Arbasino nel 1967: "Warhol, lo si vede generalmente di sera in uno dei suoi locali, salacce yèyè che gestisce e lancia col suo complessino The Velvet Underground (sulla scia dei Rolling Stones, ma piú accalorati e frenetici) e la cantante Nico, e proiezioni allucinatorie psichedeliche alle pareti, delicate e coloratissime (e sconvolgenti: qualcuno si sente male) magari con riflettori azionati da Benedetta Barzini. Poi Warhol abbandona, questi locali, come ha fatto col Dom per trasportarsi al Gymnasium, magari abbandonando anche il suo nome: proprio vendendolo al locale, che comincia a chiamarsi Andy Warhol. Cosí come per firmare i suoi quadri chiamava qualcuno (la firma è un feticcio ...) e gli faceva scrivere 'Andy Warhol' in un angolo. Ha capelli quasi bianchi, un nasetto spugnoso, emana dei riflessi d'argento, e parla talmente piano che non si capisce quasi niente. L'età, non si sa ...". Warhol girò anche dei filmati con i Velvet Underground e curò diverse loro copertine, tra le quali la più nota è senza ombra di dubbio "The Velvet Underground & Nico" del 1967. Questa copertina rispecchia in pieno il connubio pop-art e musica, infatti su un fondo completamente bianco giganteggia una banana gialla disegnata nello stile dell’artista cecoslovacco. Un’opera d’arte donata alla musica? Non solo. La cover infatti riportava di fianco alla punta della banana la dicitura: "Peel Slowly and See" (sbucciare lentamente e osservare), un’indicazione che faceva notare come la banana fosse in realtà un adesivo applicato sulla copertina, levato il quale appariva una psichedelica banana rosa appunto sbucciata, con chiare implicazioni sessuali. 


Le “gimmick cover” avevano la particolarità di utilizzare materiali tratti dal quotidiano come tessuti, metalli e cartonati particolari. In questo specialissimo filone va inserita la famosa copertina di “Sticky fingers” dei Rolling Stones, realizzata da Craig Braun su concept e foto dell'artista pop Andy Warhol già cover artist per i Velvet Underground di Lou Reed. Teoricamente la copertina avrebbe dovuto mostrare un barattolo di latta contenente delle dita femminili immerse in un liquido simile a catrame (“Sticky Fingers” significa appunto “Dita Appiccicose”), tant’è che il mercato spagnolo ricevette l’album in questa forma; tuttavia Warhol disse a Richards che la copertina gli sembrava poco adatta alla musica degli Stones e si offrì di cambiarla. La nuova copertina mostra un primo piano di un paio di jeans all'altezza dei genitali (questa visione scatenò lo sdegno di moltissimi negozianti che si rifiutarono di esporre l’album sui propri scaffali) e la particolarità di questo artwork è rappresentata dalla zip applicata sulla fotografia: questa zip infatti è una vera cerniera lampo, che, abbassata, mostra con “sfacciataggine” gli slip del modello fotografato (che era il noto sexy-attore Joe D’Alessandro dello studio di Warhol, anche se per molto tempo circolò la diceria che il pube fotografato fosse quello del cantante e frontman degli Stones, Mick Jagger).


Questo strato sottostante al di là di una curiosa finzione creativa, aveva anche una importante funzione protettiva;la zip infatti rischiava di graffiare il vinile contenuto all'interno (precisamente all'altezza della traccia “Sister Morphine”) e lo strato degli slip permetteva di proteggere il disco da eventuali danni. Warhol infatti aveva collegato le dita appiccicose all’atto della masturbazione e così stravolse l’assetto grafico dell’album, sostenendo che la vecchia copertina non avrebbe mai fatto parlare di sé e non sarebbe stata ricordata (al contrario di quanto sarebbe invece accaduto per la nuova), Keith Richards e Mick Jagger si dimostrarono subito entusiasti del lavoro dell’artista newyorchese. La copertina di "Sticky Fingers" è ricordata dai fan della band britannica anche per un altro accorgimento grafico, in quanto sul retro compariva per la prima volta la celebre linguaccia rossa che diverrà icona degli Stones, simbolo creato su proposta dello stesso Warhol.
Ad un mondo affamato di immagini Warhol dispensa il pane quotidiano, senza dimenticare di porre inquietanti note sulle conseguenze di questo sovraccarico: l’indifferenza, la perdita della memoria, la consumazione e la noia. È questo il destino dei miti come Elvis, Marylin o Marlon Brando, entrare nell’immaginario collettivo con un solo volto ed un solo sorriso, rimbalzati dai media fino a creare uno stereotipo di cui è impossibile liberarsi. Ma così come per "gli eroi dei tempi moderni" un destino analogo tocca agli oggetti, in un qualche modo anche essi elevati a "miti di un'epoca" e a status-symbol, e questo è stato il destino delle due gimmick-cover: elevarsi dallo stato di oggetto e trasformarsi in un pezzo d'arte prodotto in serie e destinato al consumo e al mito moderno.


«Un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha bisogno ma che lui – per qualche ragione – pensa sia una buona idea dargli.»   -   Andy Wahrol

                                                                                                  - P.

martedì 15 gennaio 2013

Le conseguenze di un lavoro che non (ap)paga


C’è chi lo fa per la pura necessità, c’è chi lo pratica con passione, c’è chi lo fa per tenersi occupato: in ogni caso tutti noi, oggi, ci confrontiamo con il lavoro, qualsiasi esso sia.
Quello che andremo ad analizzare oggi è un tema complesso e allo stesso tempo delicato, specialmente rapportato all’ultimo periodo: è ben evidente quanto il problema della disoccupazione e della conseguente crisi economica sia sulla bocca di tutti.
Prima di iniziare la mia trattazione mi preme precisare al lettore che, in questo breve saggio, non si parlerà né di politica né ci saranno toni polemici: tra le righe si potrà leggere qualcosa di più umano rispetto alle solite cifre dello spread,  qualcosa più vicino alla nostra sfera emotiva la quale anche nelle testate giornalistiche più famose si affronta raramente : l’atteggiamento dell’uomo di fronte al problema di un lavoro che non (ap)paga.
Quando si parla di sentimenti ci stacchiamo dalle categorie spazio-temporali e ci immergiamo in una dimensione più generale.
L’uomo, o meglio, la sua più intima ed emotiva parte è sempre la stessa, magari accresce o diminuisce in sensibilità, ma le inquietudini, le gioie e le sensazioni rimangono invariate qualsiasi sia il momento storico o il luogo in cui si trova.
Ecco perché ho deciso di iniziare il mio discorso sin dai tempi antichi, durante i quali l’uomo si è mobilitato per trovarsi un’occupazione, un’attività che possa impegnarlo nell’arco della giornata ed aiutarlo economicamente a sostenere i bisogni della sua quotidianità.
Ma oltre alla funzione “pragmatica", al "labor" si accosta anche quella della “humanitas”. Per meglio  spiegarmi, mi piace riprendere il titolo di un'opera scritta nel 1486 da Pico della Mirandola e riproporvelo sotto la lente del tema di oggi: “Oratio de hominis dignitate”.
Quest’opera si riferisce alla potenza e al primato dell’intelletto, che per l’umanista rendeva  l’uomo rispettabile, mentre per noi moderni è proprio il lavoro a darci dignità.
Grazie alla retribuzione possiamo garantire infatti un futuro migliore sia a noi stessi che alla nostra famiglia, possiamo considerarci realizzati e soddisfatti, sebbene l’attività lavorativa non manchi né di impegno né di dedizione (d’altronde la stessa etimologia di “labor” è “fatica”).
In ogni caso, “l’insoddisfazione segue l’ambizione come un’ombra” diceva Haskins e quindi sentire lamentele su quanto il proprio impiego sia stressante e/o al di sotto dei propri sogni è abbastanza ricorrente nelle conversazioni tra noi “esseri imperfetti”.
Ora però vi invito a fermarvi un attimo a pensare come si sente un disoccupato, magari una famiglia che non ha di che mangiare perché entrambi i genitori sono stati licenziati, o un giovane pieno di grinta che non riesce a trovare lavoro e quindi non può realizzare le sue giuste aspirazioni.
Ponete attenzione al differente umore di come deve sentirsi un uomo, quando la sera, tornando a casa dopo aver lavorato anche pesantemente sa di aver adempiuto alle proprie responsabilità , ovvero immaginare le sensazioni, i sentimenti, la preoccupazione  forse anche la depressione di chi è stato costretto a passare la giornata a casa non per inerzia ma per una obbiettiva difficoltà generale di una onesta ricollocazione in un nuovo ambiente di lavoro.
La sicurezza e l’affermazione di sé come Uomo si sgretola davanti all’assenza  di un lavoro, l’immagine che si proietta davanti a noi è quella di un fallimento, è quella di una coscienza che si abbandona al nichilismo.
La frustrazione è una conseguenza logica ed immediata di questa triste condizione: fiumi di parole sono stati scritti per cercare un rimedio a questa angoscia e altrettante macchie di colore sono servite per rappresentare lo stato d'animo e il pensiero di artisti che si rapportano al problema: di seguito vi propongo una carrellata di immagini rappresentative di figure che si confrontano con il tema dell'articolo, mentre altre vi suggeriscono la dedizione a quel lavoro che nobilita l’esistenza.
In conclusione, quella che viviamo oggi non è una realtà solo nostra: tanti prima di noi hanno combattuto contro il proprio tempo per trovare un giusto equilibrio, per sentirsi Uomini degni, per tornare a casa stanchi e per trovare ogni sera, sulla propria tavola, un tozzo di pane frutto del sudore della loro fronte.
E' quello il lavoro che appaga. E' quello il risultato che tutti vorremmo. E' quello di una Nazione come la nostra, che vanta una Costituzione che si apre con l’articolo 1 che recita "l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro".
Questo è quello a cui tutti noi aspiriamo poichè l’unica cosa che (ap)paga.
                                                                                                                                        -Federica

lunedì 14 gennaio 2013

Viaggio nel mondo del "kitsch"

Sono ormai finite la vacanze di Natale e da più di una settimana ognuno è tornato alla propria occupazione (con qualche chilo in più). Anche noi del blog, dopo gite fuori porta (come ha fatto Federica) o abbuffate epiche (come, invece, ho fatto io) abbiamo finito le nostre ferie: innanzitutto colgo l'occasione per ringraziare tutti i visitatori, in circa quattro mesi abbiamo superato le 3000 visite, che dire... Grazie di cuore a quanti apprezzano il nostro operato ed il nostro impegno!

Il maestro Teomondo Scrofalo brinda con noi
C'è una cosa che, però, mi ha lasciato particolarmente stupefatto: delle oltre 3000 visite circa 900 le ha ricevute il mio articolo in memoria del maestro diTerracina, Osvaldo Paniccia. Pur non essendo proprio un genio della matematica, risulta piuttosto facile accorgersi che, sostanzialmente, circa un terzo delle visite che il nostro blog ha ricevuto le dobbiamo tributare al “monarca assoluto della pittura” (volendo fare una citazione biblica «Date a Cesare quel che è di Cesare»)... Vi svelo un piccolo segreto del blog: mentre i due tecnici continuano a fare tranquillamente il loro lavoro, fra Federica, Raffaela e me vige una piccola tradizione, ci piace fare a gara a chi ha l'articolo più visitato, chi vince ha in cambio stima ed ammirazione. Fino a un mesetto fa eravamo tutti alla pari, ma poi il sottoscritto ha pubblicato quell'encomio funebre e la classifica attualmente mi vede vincitore senza speranza di recupero da parte delle mie due colleghe (vi voglio bene comunque, ragazze). Voglio essere sincero, teoricamente oggi avrei dovuto dedicare il mio articolo alla terza parte del confronto fra i pittori e i registi, inaugurato con Goya ed il cinema Weird e proseguito con Cronenberg e Bacon, ma all'ultimo momento ho deciso di spostarmi da quanto concordato e di fare una delle mie tipiche “alzate di ingegno”(rimando il terzo appuntamento della serie “Pittori vs. Registi” ad un'altra volta).  
Abbiamo già parlato, in uno dei nostriprimi articoli, dell'inarrivabile Andrea Diprè, avvocato,critico d'arte, talent scout (playboy e filantropo... oh no,aspettate, quello era un altro!) e un mese fa abbiamo dedicato un articolo al fiore all'occhiello delle scuderie di Diprè, Osvaldo Paniccia (pace all'anima sua): sappiamo che il Dott. Avv. Prof. Andrea Diprè sta spopolando nel mondo del web (e con lui, tutti i suoi “artisti”), ma nel web c'è anche una quantità impressionante di siti e blog dedicati a tutta quella produzione (cinematografica, musicale, artistica o di oggettistica) che può essere considerata, in una sola parola, “brutta”, o anche “trash” come direbbero gli Inglesi che significa, appunto, spazzatura. Sembra proprio che la cultura underground di internet nutra una vera e proprio culto verso «le buone cose di pessimo gusto» (come direbbe Guido Gozzano) ed il successo che ha avuto il mio articolo per il maestro Paniccia mi ha spinto a dedicare questo intervento di oggi ad alcune considerazioni sulla storia e sul concetto stesso di “kitsch”.


Il termine «kitsch» ha origini tedesche che sta ad indicare, in generale, tutto ciò che può essere considerato di pessimo gusto: spesso è stato associato all'idea di una degradazione dell'arte, riferendosi con esso a tutta quella produzione artistica svenevole, frivola e patetica, che non presentava quegli aspetti di originalità e creatività propria dell'arte “autentica”. Volendo essere più precisi ecco cosa si trova scritto nell'Enciclopedia Treccani sotto la definizione di kitsch:

«... il termine, assunto nel lessico intellettuale internazionale, passò a indicare quell’aspetto del cattivo gusto che contrassegna la produzione estetica destinata alle attese dell’uomo medio della civiltà contemporanea.»

Non è tanto il “cattivo gusto” a rendere un oggetto kitsch, ma è più il suo “spirito”, l'idea dietro la sua creazione: un prodotto nasce da un'idea e da un'aspettativa che si ha dietro questa idea, un oggetto di pessimo gusto è frutto, magari di una produzione povera o “casereccia”, l'oggetto kitsch no invece, esso ha la pretesa ridondante di autenticità e di rispetto dei valori formali ed estetici, quando invece è tutto frutto di una mera scopiazzatura.


In campo artistico ciò si traduce come una degradazione dei più importanti temi sociali, familiari e religiosi che, perdendo la loro carica “problematica”, si trasformavano in semplici “luoghi comuni”: da qui, parte il nostro viaggio alla scoperta del kitsch nelle varie epoche e nelle varie arti. Sorvolando la speculazione filosofica sul concetto di “estetica” iniziato da Kant, il termine «kitsch» fa, per la prima volta, la sua comparsa nel 19° secolo, su un saggio di Clement Greenberg in cui definisce i movimenti di avanguardia e del modernismo come i migliori mezzi per resistere alla cultura del consumismo e quindi della produzione kitsch. Già dall'inizio dell'Ottocento molta produzione letteraria era dedicata al consumo, libri frivoli e leziosi che degradavano il concetto stesso di “Romanticismo”, privandolo di quella tensione al sublime e rendendolo solo un sinonimo di sentimentalismo esasperato, fra gli esempi più famosi si può vedere il famoso “romanzo d'appendice”, di cui una delle più famosi autrici fu Carolina Invernizio. La Invernizio vanta un “corpus letterario” notevole, che farebbe impallidire anche il più prolifico degli scrittori, questi romanzi che le portarono notevole fama si basavano su una pallida ed inaridita scopiazzatura di tutti quei temi che animavano la cultura “alta” (primi fra tutti le idee del Verga e di Fogazzaro), ma proprio l'appiattimento di queste tematiche le rendeva dei banali clichè, dei semplici luoghi comuni.
Volendo essere un po' cattivelli si potrebbe dire che da una costola della Invernizio prese vita tutto quel filone di produzione letteraria che oggi ha portato ad autori come Federico Moccia o Fabio Volo di pubblicare i loro romanzi e di avere successo: volendo gettare un rapido occhio critico alla produzione letteraria di Moccia si vede subito come il mondo dei giovani (un microcosmo che nasconderebbe infinite sfaccettature e problemi) sia trattato con una superficialità e con una banalità che rendono uno spunto, potenzialmente interessante, una storiella d'amore scialba e frivola.


Con l'avvento del cinematografo l'estetica kitsch va ad infilarsi anche nel mondo del cinema, dove cambia nome e si fa chiamare “cinematografia trash” (o b-movies, per i più anglofoni). Si tratta di tutti quei film dove, per mancanza di budget, si ricorre ad attori al limite dell'amatoriale e ad effetti speciali che suscitano scoppi incontenibili di ilarità; molte volte dietro il dilettantismo si può nascondere anche una buona idea (per chi frequenta questo ambiente, basta vedere un film qualsiasi del leggendario Ed Woodd), altre volte invece si tratta solo di plagi malriusciti che puntano a sfruttare il successo di film molto più famosi sperando di imbrogliare qualche spettatore meno avveduto. Alle volte i registi, consapevoli di non girare “Via col vento” sfruttavano un'arma a costo zero che poteva ribaltare le sorti di una pellicola, trasformando un b – movie in un piacevole visione, l'autoironia: se anche questa veniva a mancare e c'era, anzi, la pretesa di star girando un capolavoro o la convinzione di essere dei visionari Stanley Kubrick squattrinati ,nascevano i film definiti “trash” che, per paradossale che possa sembrare, fanno ancora più ridere di quelli in cui era stata aggiunta una sana dose di ironia!

Carrellata di alcuni dei più micidiali film "trash"
Anche nell'architettura e nel design il kitsch vuole la sua parte, e per farsi riconoscere, si definisce come un oggetto la cui forma non sia strettamente legata alla funzione e che, spesso, presenta forti rimandi baroccheggianti e stuccosi.


Questo vale anche per le arti visive, naturalmente. Partendo dal leggendario Teomondo Scrofalo (la famosa tela venduta da Ezio Greggio durante “L'asta tosta” al Drive-in) la tradizione pittorica del kitsch è basata sempre sulla degradazione di opere famose che diventano di un linguaggio accessibili a tutti e che ha la sola funzione di arredare, ed è qui che arriva il nostro ineguagliabile Andrea Diprè! Fondamentalmente quelle pitture che egli presenta, altro non sono che sfoghi al pari di un hobby di persone normali, galvanizzate dall'aspettativa di una carriera nel mondo dell'arte queste persone arrivano a pensare “Dunque io sono un artista!” e la pretenziosità della loro aspirazione cozza tremendamente con le loro brutte pitture, facendo salire iperbolicamente il livello di kitsch. Ovviamente il caso più famoso è quello del maestro Paniccia, un anziano signore che probabilmente dipingeva per passione e senza nessuna aspettativa, magari fino a due anni fa nessuno avrebbe voluto un quadro del genere in casa e magari sarebbe stato perfino un regalo poco gradito per alcuni, adesso invece Paniccia, dopo la sua serena dipartita, è stato eletto a leggenda della pittura, permettendo a Diprè di pubblicare questo su Twitter.  

Volendo spezzare una lancia in suo favore, si potrebbe dire che la produzione kitsch è immediatamente comprensibile: la cosa rende quindi possibile la loro fruizione a chiunque, i concetti descritti non nascondo nulla e la loro banalità, il messaggio va diretto dal produttore all'osservatore, l'interpretazione è già veicolata nel messaggio (il medium È il messaggio!). Al riguardo scrive Milan Kundera:

« Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria […] un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch. [...] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile»

C'è però un ultima aspetto che reputo molto preoccupante, fra gli studiosi del rapporto fra arte e società e delle problematiche legate al concetto di kitsch c'era anche Hermann Broch che ha coniato il termine “kitsch – mensch”, ossia “uomo kitsch”, prodotto di una società in cui alla mancanza di valori etici di base si tenta di sopperire con l’esaltazione di valori estetici facili e fittizi.
Non vorrei essere troppo pessimista... ma non vi sembra una situazione fin troppo attuale?  

                                                                                                            - P. 

giovedì 10 gennaio 2013

SettimArte: Alessandro Blasetti - La Corona di Ferro



Esistono film che a volte si perdono nel tempo. Può succedere che si perdano nel senso letterale del termine, come è avvenuto a molte, troppe opere a cavallo delle due guerre, come ad esempio Il fantasma del castello, celebre film (all’epoca) di Tod Browning, di cui non esistono più copie. Altre volte succede che grandi successi di una generazione non diventino “classici” , quei film che è quasi una colpa non conoscere, ma semplicemente perdono via via successo, rimanendo relegati all’epoca di riferimento.
Il caso de La corona di ferro è abbastanza peculiare: pellicola presentata nel 1941, si tratta di un vero e proprio kolossal (ossia, una grande produzione cinematografica) , approvata da Benito Mussolini in persona. La cosa è strana, considerando che il film presenta una morale di fondo decisamente pacifista, sebbene assolutamente slegata dai concetti di democrazia nel senso contemporaneo del termine, trovando nel genere fantasy un modo per conciliare questo apparente dissidio.
Luisa Ferida (Tundra)
C’è da dire che il regista, Alessandro Blasetti, era un dichiarato fascista, come pure la celebre  coppia di attori Luisa Ferida e Osvaldo Valente (per la cui vicenda si rimanda ai film Sanguepazzo e Gioco perverso) , oppositori prima, divennero sostenitori della Repubblica Sociale Italiana poi. Mussolini quindi approvò la pellicola del “fascistissimo” regista, sebbene alti capi del nazismo storsero il naso davanti al film. Non faremo, però, sterile critica di ideali o scissione di intenti: così come nel Futurismo, in cui, nonostante il fallimento dei propositi e la soggettiva distanza politica, ci sono comunque elementi innovativi e da apprezzare, Blasetti si è dimostrato, nella sua carriera, un artista multiforme, capace di spaziare tra generi e registri diversissimi, e un vero innovatore del cinema italiano, addirittura precursore della corrente Neorealista (con Quattro passi tra le nuvole, 1942), che, è risaputo, è di impostazione marcatamente antifascista, o del genere documentario (con Europa di notte, 1958) . Lo stesso regista non faceva segreto di collaborazioni artistiche con figure diversamente schierate, artisti e addetti ai lavori che boicottavano apertamente il regime, in una visione di apertura e tolleranza.

C’è sempre una certe reticenza a parlare di queste figure artistiche associate al Fascismo: come accade con D’Annunzio, di solito la soluzione è citare l’adesione come fosse un particolare marginale, o magari non parlandone affatto, come se si trattasse di una velata censura.
In verità, specie nel caso di Blasetti e D’Annunzio, risulta un po’ difficile evitare l’argomento: Blasetti è il “Vate” in campo cinematografico del Duce. I suoi primi film furono infatti una serie di opere celebrative delle opere e degli ideali fascisti: Sole, del 1929, sulla bonifica dell’Agro Pontino, Terra madre, del 1931, sulla politica ruralista di regime, 1860, del 1934, sullo sbarco dei Mille, pellicola, questa, apologetica e celebrativa quanto l’Eneide, ma al contempo dissonante, con il suo taglio populista, a voler dimostrare l’intento del regista di pacificazione delle classi sociali.
Gino Cervi (Sedemondo) ed Elisa Cegani (Elsa)
Equilibrato quanto poliedrico, Blasetti fu per questo “graziato” dopo la caduta del regime fascista (ma aiutò molto anche la mancata adesione alla RSI, in un destino opposto ai due citati Valenti e Ferida) , continuando a essere ammesso e ascoltato nel dibattito artistico quanto in quello politico: moltissimi registi, infatti, hanno ammesso di averlo ammirato e di averne preso spunto, tra i quali Steno, Amedeo Nazzari, Marcello Mastroianni, Mario Monicelli, Gino Cervi.

Proprio il famoso interprete del Commissario Maigret e del personaggio di Peppone compare ne La corona di ferro nelle vesti dell’antagonista, ruolo alquanto insolito per Cervi.
Massimo Girotti (Arminio)
Il plot è alquanto semplice all’apparenza. In una terra non ben identificata due popoli si scontrano. Il vincitore tende la mano al vinto, ma, un attimo prima di suggellare la pace, viene ucciso da suo fratello Sedemondo (Cervi) , che si proclama re, negando l’accordo appena fatto e facendo schiavo il popolo nemico. Alcuni, tuttavia, riescono a fuggire sulle montagne, dove la regina dà alla luce una bambina, Tundra (Luisa Ferida, che interpreta anche la regina) . Sulla strada del ritorno, Sedemondo incrocia poi una spedizione di cavalieri che scorta la celebre Corona di ferro, reliquia che ospita al suo interno un chiodo usato per crocifiggere Gesù, e se ne impadronisce. Qui compare una misteriosa vecchina, che sostiene che laddove la Corona si ferma riporta pace e giustizia, profetizzando al re che sua moglie e quella di suo fratello morto avranno due figli, destinati ad amarsi, e il loro amore sarà la causa della sua rovina. Per scongiurare la profezia, Sedemondo cerca di distruggere la Corona, ma gli risulta inspiegabilmente impossibile, tanto da spingerlo a gettarla fuori dal regno, alle gole di Natersa. La Corona, misteriosamente, viene inghiottita dalla terra. Tornato a casa, scopre che effettivamente sono nati due principini, decidendo di crescerli come fratelli per evitare che si possano amare. Anni dopo scopre che in realtà quello che credeva suo figlio era suo nipote: le madri hanno infatti scambiato i bambini in culla. Adirato, fa gettare il bambino, Arminio (Massimo Girotti) nella Fossa dei Leoni, ma la vecchina fa sì che perda la memoria. Divenuto grande, Arminio, cresciuto come un selvaggio, ma forte e buono, incontra Tundra e l’aiuta a liberare il suo popolo, ignaro di tutto. Intanto Elsa (Elisa Cegani) , figlia di Sedemondo, languisce in una torre, in attesa che un pretendente vinca la sua mano in torneo. Neanche a dirlo, dopo una serie di intrighi e combattimenti rocamboleschi, sarà proprio Arminio a vincere la giostra, sentimentalmente diviso tra le due donne. Elsa, scoperta la verità, si sacrifica per l’amato e per Tundra, permettendo il loro amore, la pace tra i due popoli e il miracoloso ritrovamento della Corona, che, ristabilita giustizia, può riprendere il suo viaggio.

L'alcova di Elsa ricorda molto la stanza della protagonista
della Bella Addormentata
Già dalla trama si desumono svariati elementi presi in prestito dalle mitologie e dalla letteratura di tutto il mondo: prima di tutto quella collaterale alla cristianità, quale l’evidente rimando alla Corona ferra del Sacro Romano Impero; quelle pagane, nella scena dei leoni che riconoscono Arminio nella fossa del torneo, che rimanda al racconto di Aulo Gellio presente in Noctes Atticae sul leone che riconosce l’uomo che l’ha curato anni prima, e nella figura di Arkas, arciere infallibile, esattamente come Teucro, personaggio dell’Iliade; il fratricidio, che rimanda all’Enrico VI di Shakespeare; la maga travestita da vecchina con il fuso che ricorda Perrault e la sua Bella Addormentata, la cui protagonista, che dorme in una torre da anni e anni ricorda la prigionia di Elsa, che vive rinchiusa in stato quasi comatoso. Inoltre, i due fratelli (che sono in realtà cugini) che si innamorano, ricordano vagamente il mito di Edipo e Giocasta, perlomeno nella resa filmica della scoperta.
Tutto questo porta a pensare a una vasta ricerca semantica, che si tramuta in un intreccio fitto e denso di significati, seppure all’apparenza di una semplicità che sfiora il già-visto: le coordinate geografiche non chiare, la figlia del re promessa in sposa, il re cattivo e despota, sono tutti luoghi comuni fiabeschi, ma qui interpretati in una luce tutta nuova e non scontata, tutto per merito della recitazione eccelsa. I grandi nomi già citati, accanto a Paolo Stoppa e Rina Morelli, grandi attori teatrali, sanno come destreggiarsi tanto bene nelle vesti medievali e in maniera così naturale da evitare quella patina di solenne che spesso si riscontra in questo genere di narrazione e che risulta spesso troppo marcata. Per fare un paragone in letteratura, si avverte molto di più la vicinanza allo stile da spaccato di vita di George R.R. Martin che non a quello epico di Tolkien.

La scena di Girotti nella fossa con i leoni fu girata usando
una tecnica simile al moderno Green Screen
C’è da dire che Blasetti non era nuovo ai film in costume, né con questo si è risparmiato. Tuttavia, le cifre parlano di circa 14 milioni di lire, una somma ingente, che Blasetti dovette ammortizzare girando poi subito dopo La cena delle beffe, riadattando cast, costumi e scenografie alla bisogna.
A tal proposito, lo scenografo in questione è Virgilio Marchi, che aveva già collaborato col regista in più d’un’occasione e che era vicino al Futurismo: s’intravede infatti nella sua opera un certo geometrismo latente.
Le scene appaiono molto curate: da un lato notiamo inquadrature speculari, perfettamente simmetriche, dall’altro scene di grande profondità ed equilibrio, come quelle iniziali di battaglia o quelle a corte, in cui i personaggi e gli elementi della scenografia sono disposti in un ordine rigoroso e immediatamente percepibile (non a caso Blasetti era conosciuto per questa sua maniacalità, specie con le comparse) .
Notevole il montaggio, specie nelle scene d’azione, veloce e preciso. Una delle pecche del film sembra essere però il ritmo altalenante e una sorta di “salti” di trama che possono confondere lo spettatore. C’è da dire che è un elemento fiabesco molto comune lo scorrere meraviglioso del tempo, ma si nota un ritmo incalzante nella prima metà del film (in cui infatti cronologicamente passano anni) , per divenire poi molto più descrittivo e intricato verso il finale.

Può questo miscuglio pan-mitologico essere il fulcro di una proposta di pace e sovversione della tirannia? Probabilmente sì, anche se vedremo che a fine film, nonostante tutto, verrà ristabilito comunque un erede al trono e quindi una monarchia, cosa che al giorno d’oggi risulta contraddittoria, fuori dall’ottica del fantasy. D’altro canto, anche altre opere di legittimazione di svariati re e imperatori, a cominciare dalla citata Eneide, alla Gerusalemme liberata, presentano trame simili, eroiche, allineate al bene, ma che in fin dei conti nascondono tutte il medesimo intento. Del resto non sempre parole come “tirannia” , “monarchia” hanno avuto un’accezione negativa.

-R.

giovedì 3 gennaio 2013

L'Arte tra noi:reportage di un inaspettato viaggio a Firenze



Cari lettori, in questo articolo ho deciso di raccontarvi la mia esperienza a Firenze, durante il periodo di otium natalizio. Fiorenza, per dirla alla medievale, sorprende sempre e ogni volta che passavo in Piazza della Signoria o davanti al Duomo non potevo far altro che lasciarmi catturare e avvolgere dalla magia e dalla bellezza dell’atmosfera. Ogni sguardo era sempre nuovo e ogni volta i miei occhi erano colpiti da qualcosa di diverso e di meraviglioso.
Un viaggio iniziato per caso, a sorpresa: alla partenza credevo andare da tutt'altra parte, poi quando ho imboccato l’autostrada non ho saputo trattenere la felicità: finalmente tornavo nella mia amata Firenze!
Come potete ben immaginare il soggiorno è volato, le ore sembravano sfuggirmi di mano; nonostante questo sono riuscita a (ri)visitare i luoghi artistico-culturali più importanti e celebri, tralasciando Palazzo Pitti, Palazzo Strozzi e la chiesa (ex granaio) di Orsanmichele.
Il mio tour è iniziato dalla Galleria dell’Accademia: sono rimasta molto soddisfatta dall'organizzazione del museo, nonostante ad accoglierci c’era una grande impalcatura per il restauro del Ratto delle Sabine del Giambologna.  Inutile stare a descrivere la bellezza delle tele esposte alle pareti: artisti come Paolo Uccello, Botticelli e Ghirlandaio presentavano il Quattro-Cinquecento fiorentino. La parte che mi ha lasciato più senza fiato però, è stata successivamente all’ingresso della Galleria dei Prigioni: ai lati del corridoio erano disposti sei Schiavi di Michelangelo, esempi di non finito, in origine destinati alla tomba di Giulio II.  Al termine dell’ampio corridoio c’era il David ad attenderci: non c’è statua più maestosa e imponente della citata. Con i suoi 410 centimetri (517 con la base) di altezza era il protagonista della sala. La sensazione che si prova davanti a cotanta grandezza è assai singolare: da una parte ci si sente miseri, finiti, un nonnulla per via della sua imponenza, dall’altra ci sentiamo vicino all’eroe, così grande e astuto ma umano come noi. Michelangelo con le sue idee legate al primato della ragione umana ha saputo tradurre mediante canoni classici quello che la filosofia ha espresso con fiumi di parole: grazie alla scultura qualsiasi uomo, colto o ignorante che sia, può riconoscersi infinitamente piccolo ma con il grande dono del pensiero di fronte al mondo naturale.
Proseguendo il giro verso sinistra mi sono immersa in una splendida gipsoteca dedicata al Bartolini, con i gessi disposti secondo la collocazione originale e accompagnate da tele realizzate tra il 1794 e il 1868 in occasione di bandi e concorsi promossi dall’Accademia.
Ponte Vecchio illuminato
A concludere il mio primo giorno a Firenze è stata la visita al celeberrimo Ponte Vecchio, meta fissa di tanti amanti che si scambiano teneri baci sullo sfondo della città d’arte per eccellenza interamente illuminata dalle luci della sera.
L’indomani il gallo ha cantato molto presto nella mia camera: gli Uffizi ci aspettavano!
Come da tradizione una lunga fila quasi chilometrica faceva da contorno al bel loggiato, ma grazie alla prenotazione me la sono cavata con 10 minuti di attesa. Bello come sempre, il corridoio vasariano mi ha levato il fiato per qualche attimo. E’ inutile descrivere a parole quello che a malapena gli occhi riescono a osservare, quindi lascio a voi lettori l’andare a curiosare tra le immagini e perché no, farci un salto e vederlo di persona ( un salto nel senso più metaforico possibile, perché per vedere tutto il museo ho impiegato circa 5 ore!).
Sale gremite di persone da tutto il mondo, tante espressioni di maraviglia espresse in diversi idiomi, sguardi persi, dita che indicano i dettagli delle tele… Questi sono gli Uffizi.. Luogo di “perdizione” per la vista, luogo in cui anche l’animo meno sensibile si riconosce con le forme delle figure rappresentate, luogo in cui si può ammirare e conoscere la vera Arte.
Purtroppo mi trovo a fare una puntualizzazione rispetto alla logistica della Galleria: la luce che illuminava le opere e anche quella della sala dedicata a Caravaggio non era delle migliori. Nella sala del Botticelli, dove si stagliano la Primavera e La Nascita di Venere a malapena si riuscivano a vedere i dettagli delle tele e l’atmosfera era piuttosto cupa. Al contrario, nell’ultima stanza dei caravaggeschi c’era troppa illuminazione e il vetro che proteggeva la superficie originale rifletteva l’ombra dello spettatore, non offrendo il massimo della vista.
Uscendo dagli Uffizi ho iniziato il tour “arte sacra” entrando in diverse chiese: la prima è stata Santa Maria Novella, con la Trinità di Masaccio, il Crocifisso di Giotto e il Pulpito nel quale una sola volta l’anno un  preciso raggio di sole illumina la storia dell’Annunciazione. Proseguendo sono entrata a Santa Croce, la quale accoglie tutte le tombe e cinetofori delle più grandi piume della letteratura italiana, poi un’infinità di altre chiesette minori, tutte con i loro affreschi risalenti ai secoli XIII-XIV che mi lasciavano sempre a bocca aperta.
Per concludere il percorso sacro non poteva mancare l’imponente e maestoso Duomo: mi sono fatta cullare dal profumo d’incenso, dalla luce fioca dei lumini, dai canti e dai colori dello stupendo Giudizio Universale che ricopre tutta la parte interna della Cupola, realizzato in piena epoca manierista (1572) dapprima dal Vasari e poi terminato da Federico Zuccari. (Egli stesso nel suo testamento ricorda di aver affrescato un immenso Lucifero, alto ben 13 braccia fiorentine (circa 8 metri e mezzo)).
Inebriata dalla preziosa atmosfera, mi sono lanciata nell’impresa titanica di salire ben 473 scalini per arrivare fino alla Lanterna della Cupola del Brunelleschi. Bella sfida per una come me che soffre di claustrofobia, ma per amore dell’Arte mi sono messa in gioco. Beh, che dire il risultato finale è stato sorprendente: sono stata così fortunata che non poteva esserci miglior giornata per ammirare Fiorenza dall’alto, l’aria di fine dicembre così fresca aveva spazzato via ogni nuvola e aveva lasciato il posto ad una vista da lasciar senza parole. I contorni erano nitidissimi, ogni tetto, ogni campanile, ogni vicolo si presentava nel migliore dei  modi, come se in ogni più piccolo angolo, la città si fosse preparata durante la notte per mostrare la sua parte più bella a noi visitatori.
Non c’è che dire, questo mio breve ma intenso viaggio mi ha reso davvero felice. Un ultimo saluto a Firenze l’ho voluto fare da Piazzale Michelangelo, meglio conosciuto come “belvedere”. Il crepuscolo del tramonto disegnava i contorni degli edifici e ci regalava un ulteriore e meraviglioso ricordo della culla dell’arte italiana.
Vista  da  Piazzale Michelangelo
Ora, non voglio concludere questo mio reportage né con un riferimento tecnico alle bellezze artistiche e né riferendomi  all’ottimo tour gastronomico che ha accompagnato le nostre visite culturali, ma piuttosto con un ringraziamento speciale alla persona che ha reso possibile tutto questo.
Cari lettori, questa è una dimostrazione di come l’Arte, o meglio, la passione per la stessa, si possa diffondere anche tra i meno esperti, anche tra coloro che dicono “tanto l’Annunciazione è sempre quello”.
Passeggiare tra le vie di una Firenze illuminata dalle luci natalizie con una persona accanto che dal nulla ti sorprende con un “ma quello è un arco ad ogiva!” oppure che riconosce la differenza tra putto, amorino e angelo davanti ad una tela del Perugino non ha prezzo. La soddisfazione che si prova a trasmettere la passione per l’Arte ad un altro spettatore è senza limiti, soprattutto quando l’amore estetico si coniuga a quello sentimentale. Non c’è regalo più grande nel vedere la persona che ci sta accanto organizzare un viaggio artistico solo per vedere il sorriso nel viso dell’amata, o ascoltarla parlare per ore di prospettiva e di proporzione dandole una felicità immensa.
E così, da “esperta” d’arte figurativa mi sono trovata “principiante” davanti ad un altro tipo di arte: l’Amore tanto raffigurato dagli stessi artisti che ho analizzato in quei giorni si è mostrato davanti a me nel suo modo più puro e più candido, davanti al quale ogni sorta di critica si inchina e si leva il cappello.
Grazie Andrea.
                                                                                                         -Federica.
Firenze ( con dettaglio del Campanile di Giotto) dall'alto della Cupola del Brunelleschi