mercoledì 30 gennaio 2013

SettimArte: David Twohy: Pitch Black



Regia: David Twohy
Paese: USA
Anno: 2000
Sceneggiatura: Jim e Ken Wheat
Fotografia: David Eggby
Genere: Fantascienza


In un futuro non meglio specificato, un’astronave con a bordo un gruppetto di passeggeri di svariata natura precipita su un planetoide non identificato. Costretti a collaborare più o meno volontariamente per cercare una via di fuga, i “naufraghi” si imbattono in una specie aliena assetata di sangue da cui devono difendersi: queste poche righe basterebbero per liquidare Pitch Black come il classico b-movie fantascientifico con annessi e connessi mostri aberranti in CGI.

E invece le cose stanno diversamente e ce ne accorgiamo dai primissimi minuti: una voce fuori campo, non troppo rassicurante, parla fuori dal coro, spiegando come stanno le cose e affermando di essere un galeotto, a differenza degli altri civili suoi compagni d’avventura. Anche se non sappiamo cos’ha fatto, ci rendiamo subito conto che non è solo a doversi fare scrupoli morali: il comandante in seconda, svegliata dal sistema di allarme, scopre che la nave sta per schiantarsi e che, oltretutto, il capitano è morto; con lei si sveglia un altro membro dell’equipaggio che le impedisce di fare quello che ha in mente: liberarsi di tutto il carico, passeggeri criogenizzati compresi, per salvare la nave. O meglio semplicemente la sua vita. In questi pochi minuti perfino i non appassionati noterebbero la sequenza dell’impatto al suolo, iperveloce e dal montaggio serratissimo, adrenalinico, il particolare dell’occhio dilatato della pilota, in un chiaro rimando agli ultimi minuti di 2001: Odissea nello spazio, con tanto di spazio sterminato e abbacinante verso cui il/la protagonista stanno andando a tuffarsi, più o meno volontariamente.

Latore di un successo insperato per il regista, David Twohy, già addetto ai lavori in campo sci-fi ma senza troppo successo, e l’attore protagonista, Vin Diesel, Pitch Black risulta di difficile classificazione ma di sicuro impatto. D’accordo, c’è da fare i conti con una trama ai limiti del plagio (opera dei fratelli Wheat, già autori de La mosca II e Nightmare IV) , a partire dalla saga di Alien, ma occorrono una serie di spunti particolarmente interessanti. Prima di tutto: il cattivo.
Dopo la visione, ve la sentireste di rispedire Riddick, Richard B., l’evaso, nel carcere da cui è fuggito? O condannereste il capitano in seconda per la scelta suddetta? O magari ve la prendereste col cacciatore di taglie tossicodipendente, l’arcinemico di Riddick, tanto scaltro quanto ambiguo? C’è poco da distinguere tra buoni e cattivi, qui ognuno fa quello che crede giusto o conveniente. Abbiamo a che fare con personaggi estremamente umani e realistici, tanto credibili da farci addentrare e impersonare a fondo nella trama.
Il gruppetto, come nella migliore delle tradizioni, è a dir poco eterogeneo: oltre ai soggetti di cui sopra, vediamo un gruppo di muezzin, un paio di avventurieri e un ragazzino dalla sessualità ambigua. I riscontri si sprecano: la letteratura, a partire da I racconti di Canterbury, è piena di mezzi di trasporto “sociali” pullulanti degli individui più disparati. Per metterla sul piano della settima arte, come ci piace, abbiamo un chiaro esempio in Ombre rosse, storico film di John Ford con John Wayne, in cui effettivamente notiamo una situazione affatto simile, compresa la “redenzione” del protagonista Ringo Kid, un evaso (come i nostro Riddick) .
Distretto 13
Ma i riferimenti al Selvaggio West non sono finiti e, anzi, continuano in un gioco di scatole cinesi: è impossibile non ricondurre questa pellicola all’abitudine cara a John Carpenter di girare western travestiti, primo tra tutti Distretto 13, anno 1976. Se lì avevamo una situazione di desolazione e degrado metropolitano (il deserto) , pullulante di criminali pronti a tutto (gli indiani) , che uccidono senza farsi udire (il silenziatore che sostituisce le frecce) , contrastati da uno sparuto gruppo di poliziotti, civili e detenuti (eccoti un altro riferimento a Riddick) , passati di lì per puro caso – e il caso la fa da padrone in tutto il film di Twohy - , qui abbiamo un deserto vero e proprio, ma alieno, bestie aliene alate, dall’aspetto simile a mante, che sicuramente non saranno silenziose come gli indiani e i criminali di Carpenter, ma sono comunque in un certo senso menomate, essendo cieche e sensibili alla luce, e come abbiamo detto abbiamo un gruppo di persone costrette a collaborare, perdipiù con poche armi e nemmeno esattamente all’avanguardia, considerando che il film è ambientato in un futuro alquanto lontano. 

Fantasmi da Marte
C’è da ricordare che Distretto 13 è a sua volta un rifacimento di Un dollaro d’onore a sua volta un rifacimento di Mezzogiorno di fuoco, entrambi classici nel modo più assoluto del genere western, con tutti i pro e i contro. Del resto Carpenter non si è neanche fermato qui, ma ha girato un ulteriore film sul genere, Fantasmi da Marte, uscito proprio un anno dopo Pitch Black, che ha giustificato come un remake in chiave sci-fi del sanguinolento e rude Distretto 13.
Ombre rosse


Effettivamente i punti in comune con Pitch Black si sprecano, ma non sarebbe opportuno parlare di plagio o rimandi, quando di un comune attingere alle medesime fonti, di cui abbiamo appena parlato.

Tornando ai nostri naufraghi persi nello spazio, c’è da dire che tralasciando i cliché eroistici (in verità pochi, nel film) , essi sono tutti degni di nota; persino le nette dicotomie sono ben studiate, salvandosi dalla banalità insita in esse: legge contro caos, fede contro scienza, sessualità contro asessualità. Mentre del primo abbiamo già parlato, per quanto riguarda la seconda abbiamo accennato alla presenza di un gruppetto di muezzin, che si distingue per l’imperturbabilità, sfiorante l’ascetismo. Sebbene in alcuni momenti si cada nell’eccesso di solennità, con la classica snocciolatura di canoni dogmatici, la figura dell’uomo che non si scompone nemmeno davanti al massacro dei suoi giovanissimi allievi (e la scena di una bambina uccisa senza pietà l’abbiamo anche in Distretto 13) è perfino credibile. Questi musulmani sembrano poter perfettamente conciliare fede e religione, anche se con una puntina di critica si potrebbe intendere il voler a tutti costi interpretare ogni cosa sotto il segno di un progetto divino, com’è uso tra i devoti di ogni credo. Tra gli uomini, oltre alla suddetta coppia fuggitivo-inseguitore, c’è anche la curiosa figura di un commerciante sarcastico e occhialuto, che sembra più un contrabbandiere. La scena è contesa inizialmente da due primedonne, ognuna a modo suo autoritaria: Fry, la pilota, che assume il ruolo, tradizionalmente maschile, del leader imparziale e carismatico, ricordando molto la Ripley di Alien, film molto omaggiato qui, mentre Shazza, l’avventuriera, rappresenta la donna selvaggia, indomita eppur sensuale senza volerlo, una sorta di regina delle sabbie, perfetta in un ambiente come quello rappresentato. A questo va ad accostarsi lo strano caso di Jack/Jackie, una ragazzina travestita da maschio, un po’ come Ed, il/la genietto/a informatico/a dell’anime Cowboy Bebop, uscito un paio d’anni prima, di cui non si capisce l’identità sessuale finchè un evento critico non lo rivela. Nel caso di Jackie, è il suo ciclo mestruale che arriva giusto in tempo per attirare i mostri sanguinari sulle tracce del gruppo.

In effetti, la spedizione pare avvolta da un’aura di sfortuna: oltre all’atterraggio non previsto, si ritrovano in uno scenario desertico - in cui, c’è da dirlo, i derelitti respirano tranquillamente come se l’atmosfera fosse quella terrestre – e arido, in cui vengono ritrovati un cimitero degli elefanti (o comunque di enormi animali probabilmente estinti) e una base di ricerca, in cui viene rinvenuto un modellino dell’orbita del platenoide su cui sono atterrati. Platenoide che ha tre soli, i quali congiungono le loro orbite ogni ventidue anni, dando vita a un’eclissi, eclissi che si manifesterà proprio poco dopo l’atterraggio della nave.
Mad Max
Dal punto di vista stilistico, se la prima metà del film è, come Alien, al limite tra fantascienza e thriller, caratterizzata da riprese abbacinanti e dotate di forte luminosità senza ombre, solitamente monocromatiche e viranti nei colori del bianco-azzurro e del rosso-arancio (i colori dei tre soli) , un’azzeccatissima decisione di David Eggby, già direttore della fotografia in Mad Max (non a caso alquanto simile nella resa e girato nello stesso set del deserto australiano) , la seconda metà, più violenta, vede protagonista l’eclissi e l’ascesa delle creature assassine, e prevede quindi riprese notturne, con pochi punti luce, rappresentanti la salvezza dei protagonisti (che, comunque, vengono decimati uno ad uno) . Le riprese oscillano tra panoramiche vertiginose e interni soffocanti, stretti intorno ai pochi protagonisti e alle creature aliene che rifuggendo la luce si nascondono nelle cavità del terreno e nelle poche strutture disponibili.

Tra tutti, si aggira la misteriosa figura di Riddick, che per il primo tempo riesce a eludere la sorveglianza e si aggira, silenzioso come un fantasma, tra i rottami della nave in attesa di riparazione e i compagni che vagano sul suolo alieno. Le riprese in cui compare lo vedono apparire come un’ombra, sempre appostato a pochi passi dagli ignari protagonisti, in un tacito patto con lo spettatore, che sa, ma non può dire niente. Sembra quasi che Riddick sia sul punto di guardare in camera e sussurrare “Shhh!” . Le cose però evolvono e, da cattivo come l’aveva fatto apparire il sedicente poliziotto/cacciatore di taglie Johns, comincia a collaborare col gruppo, sfruttando la sua particolare visione notturna, dono, a suo dire, di un medico in carcere. Del passato di Riddick sappiamo poco e nulla, qualcosina la scopriremo dal seguito, Le cronache di Riddick, ma per ora è un semplice fuggitivo, un disperso su un pianeta sperduto e di più non ci interessa sapere.
Sebbene in alcune scene sembri evidente la voluta sottolineatura della prestanza di Vin Diesel (che diventerà famoso proprio grazie a questa pellicola) , qui funzionale alla causa, e un temuto ravvedimento finale del supercattivo (che non avviene, almeno non completamente) , l’epilogo riesce a riscattare le poche magagne del film, con una battuta finale che lascia il passo a infinite congetture su come questa storia potrà proseguire. Il pubblico non ne rimarrà deluso.

Girata in economia, quest’opera si è rivelata al di sopra di ogni aspettativa: ha il sapore dei b-movie, i classici film di genere, ha quel senso di già visto che serve a tranquillizzare lo spettatore, ma al contempo spunti nuovi, interessanti, e a tratti persino innovativi.

-R.

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