giovedì 24 gennaio 2013

SettimArte: Joel e Ethan Coen - Il Grande Lebowski


Sono già reduci da svariati successi in campo cinematografico, quando, nel 1998, Joel ed Ethan Coen presentano Il grande Lebowski: sceneggiatori, registi, montatori, i fratelli di origine ebraica colpiscono sempre e comunque il bersaglio, entrambi conosciuti per rifuggire le luci della ribalta e le analisi, le discussioni più approfondite.
I Coen, infatti, si pongono in luce come consumati mestieranti della settima arte, senza pomposità, convinti che il tocco dell’autore possa rifuggire a ogni classificazione e ingabbiamento. Un comportamento e un modo di fare molto simile ai nostri classici registi neorealisti: i loro film, in maniera pura e semplice, raccontano storie degne di essere narrate, nulla più, ma la differenza la fa il come sono narrate.
In realtà c’è ben altro dietro, ma, portandola sul piano della diatriba tra alta letteratura (e cinema, di conseguenza) e letteratura di genere, sappiamo come la prima rifugga volontariamente alle “limitazioni” , se vogliamo definirle, della seconda, per orientarsi più verso la ricercatezza formale, per la complessità, se vogliamo, a discapito del tema, delle situazioni che possono o meno interessare un certo tipo di pubblico. Tralasciamo qui le annose discussioni sull’argomento e passiamo alla pellicola.

Jeffrey “Drugo” Lebowski, un simpatico nullafacente devoto solo al bowling, riceve la visita di alcuni sconosciuti che esigono il pagamento di una somma di denaro. Appare subito chiaro che c’è stato un caso di omonimia con il magnate Jeffrey Lebowski, a cui Drugo si rivolge per farsi risarcire il tappeto su cui i creditori hanno orinato per abbozzare la mala figura fatta. Qui Drugo capisce che i debiti sono stati contratti dalla giovanissima moglie del signor Lebowski, Bunny, che viene infatti rapita poco dopo. Drugo e i suoi due amici vengono assoldati per consegnare il riscatto e riprendere la ragazza ma, convinti che sia tutta una messinscena della donna per estorcere soldi al marito e scappare con un (presunto) amante, mandano all’aria l’operazione. Nel mentre Drugo fa la conoscenza della figlia di Lebowski, Maude, con cui ci saranno dei risvolti sentimentali, e di un impresario dell’industria pornografica.

Il film segue, in definitiva, un intreccio poco lineare e non convenzionale: molteplici linee narrative nascono e terminano, unite solo dalla figura centrale di Drugo. Gli stessi personaggi entrano in gioco in modo tutto nuovo ed estremamente realista, tratteggiando anche quelli apparentemente marginali con incisività. Sembra quasi di entrare nel mondo di Drugo, e dalla sua visuale vediamo i due amici di sempre entrare in scena quasi in sordina, in media res, come se ci fossero sempre stati, mentre Maude Lebowski, per fare un esempio, fa la sua entrata in scena nuda e a mezz’aria.  
La fotografia e le riprese seguono lo stile dei Coen, come già abbiamo visto in Arizona Junior, Fargo e vedremo in Fratello, dove sei? : i colori vividi la fanno da padrone, e perfino le scene notturne sono caratterizzate da una luce particolare, come succede anche nelle successive opere di Tarantino, che d’altronde non ha mai smentito i suoi debiti nei confronti dei fratelli. I Coen si deliziano in inquadrature particolari, come le panoramiche fisse piene di personaggi che dialogano (eccoti un altro richiamo a Tarantino) o, come già succedeva in Arizona Junior, riprese ai limiti dell’acrobatico e del surreale: memorabili quella dall’interno della palla da bowling, le riprese vertiginose dal basso (che ricordano le riprese metropolitane di John Landis) , quelle dei trip di Drugo, con il volo notturno sulla città pullulante di luci o l’intermezzo Gutterballs, con il protagonista che scivola rasoterra, estasiato, sotto un tunnel di gambe femminili.

Certamente la recitazione ha contribuito molto a tutto questo: il cast presenta una gran quantità di artisti che sanno il fatto. Steve Buscemi, nelle parti di Donny, un compagno di gioco del protagonista, fa la parte del perfetto ragazzone timido, ingenuo e mai completamente cresciuto, certamente a disagio tra le due forti personalità di Drugo (Jeff Bridges) e il grande e grosso Walter (John Goodman) , entrambi reduci a modo loro dal Vietnam. Se, come abbiamo capito già dal nome, Drugo è un ex-figlio dei fiori, i cui ideali storici si riversano nella logica attuale del prendi-la-vita-alla-leggera, Walter è un ex militare incavolato, armato e potenzialmente pericoloso. Ma con simpatia. Dopotutto anche il peggiore criminale, visto dagli amici, è una persona a modo. Il gioco delle parti però continua con gli altri personaggi: nonostante siano dipinti a tutto tondo, assumono l’aspetto grottesco, talvolta, di macchiette, e sembrano essere tutti in un certo senso antitetici tra loro, tutti frammenti dello stesso specchio, quello della curiosa società anni ’90 (di cui abbiamo già parlato in questo blog) .
Quello che accomuna i due Lebowski, per fare un esempio, è solo il nome, quando nella vita hanno seguito sentieri totalmente agli antipodi: uno quello del successo economico, l’altro quello del distacco dal mondo, dell’emarginazione. Ancora peggio è la figlia Maude (una stranissima Julianne Moore) , che sembra disapprovare tutto e tutti, completamente concentrata su sé stessa, la sua arte e i suoi obiettivi: vedremo che deciderà di concepire un figlio ex abrupto, senza chiedere niente a nessuno, nemmeno al padre del bambino. Anche le figure marginali del padrone di casa timido e amante dei musical, del giocatore di bowling pedofilo e ampiamente ambiguo, di un improbabile Saddam Hussein dietro al bancone degli scarpini da bowling sono riferimenti fin troppo evidenti: abbiamo una dissacrante critica degli ideali di ogni colore e tipo: vediamo il trio dei “nichilisti” (tra cui Flea e Aimee Mann) che al grido di “Noi non crediamo in niente!” fanno a pezzi decenni di pensiero sinistroide, ma anche la fissità, morale e fisica, del ricco signor Lebowski, bravo solo a inveire dalla sua sedia a rotelle, finta peraltro.



E’ una critica anche metacinematografica, con lo stravolgimento, come dicevamo, di ogni genere: l’opera varia dal noir, alla commedia, al drammatico, al comico, senza soluzione di continuità, anzi, sembra quasi che alla fine tutto rimanga in sospeso e a fine visione abbiamo l’impressione di aver semplicemente assistito a una sequela di fatti incredibili, uno spaccato di quella che è la vita di Drugo, che difatti sembra essere l’unico a non rimanerne minimamente toccato. La sua vita continua tranquilla come una partita di bowling, tra un White Russian e uno spinello, senza che, fondamentalmente, nulla sia cambiato. 
Certo, un amico gli è morto, ma con grande spirito comico (letteralmente alla Stanlio e Ollio) , Drugo (e per lui i Coen) riescono a sdrammatizzare anche lo spargimento delle sue ceneri, raccolte in un barattolo di gelato e che finiscono per riversarsi addosso a Walter. Il motivo? Vento contrario.

La colonna sonora è, ovviamente, legata a filo doppio agli anni ’70, al country e al southern rock d’annata: i Creedence Clearwater Revival la fanno da padrone, oltre a colonne sonore storiche di Piero Piccioni e Debbie Reynolds, e un’interessante ed eloquente sottolineatura musicale del cantante country Kenny Rogers, con la sua malinconica, ma scattante Just Dropped In, oltre agli Eagles in salsa Gipsy Kings.

-R.

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